Principale Politica Drago buono, drago cattivo, uguale Draghi

Drago buono, drago cattivo, uguale Draghi

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Scriveva nel suo profetico Discorso sulla Servitù volontaria, Étienne de La Boétie: “Non trascuravano gli imperatori romani di assumere regolarmente il titolo di tribuno della plebe, sia perché tale carica era ritenuta sana e sacra, sia perché era stata stabilita a difesa e protezione del popolo. Sotto la tutela dello Stato se ne garantivano così la fiducia, come se quello si accontentasse di sentire suonare quel titolo senza avvertirne invece gli effetti contrari. Non si comportano diversamente quelli di oggi, che non riescono a commettere un crimine anche grave, senza farlo precedere da qualche bel discorso sul bene comune e sulla pubblica utilità”.

È proprio così a vedere come gongolano gli ammiratori del commissario liquidatore del Paese da quando, una volta insediato, svela dietro la maschera immota della sfinge enigmatica costretta a un superiore cinismo richiesto dai tempi difficili, un tot di “capitale umano”, da spendere con parsimonia per accattivarsi le simpatie delle vittime, in modo che un domani si sentano responsabili dei danni che subiscono e che vengono loro attribuiti e meritati per leggerezza, incapacità, indolenza, scarso spirito di appartenenza e responsabilità.

È come se Draghi volesse farsi vedere in vestaglia, o dal leggendario macellaio che gli fornisce il taglio giusto per il brasato, o in shorts sotto l’ombrellone, dove Moro sostava in giacca e cravatta: d’altra parte Dumas e Louis Henry de la Brienne hanno fatto lo stesso e con analogo successo letterario mostrando grandezza e miseria, spietatezza e umanità di Richelieu  e Mazarino, nei quali il nostro si riconoscerà nei pochi momenti nei quali non si immagina brandire la spada luccicante di uno dei Cavalieri dell’Apocalisse.

Perché di una cosa possiamo star certi, che da quando è stato scelto per un incarico consono al suo temperamento geometricamente distruttivo, guarda a sé con la soddisfazione di chi vede finalmente riconosciuti il suo valore  e la sua missione, da svolgere su incarico dell’impero di Occidente, per concorrere sia pure in un ruolo esecutivo alla fine di quell’era storica contrassegnata dall’illusione democratica che deve far posto alla concretezza liberista.

Non solo preside severo, ma lungimirante padre di famiglia, saggio nume tutelare che con volontà pedagogica espone i benefici dell’osservanza delle regole, le virtù della delega, il dovere di agire secondo coscienza: tutto era cominciato con la sacra rappresentazione officiata in quel di Rimini davanti a una folla plaudente di giovani cattolici orbati del loro futuro, dove citò la ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: “dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare e  la saggezza di capire la differenza”, anticipando che col suo prossimo arrivo sarebbe giunta l’età del costruttivo pragmatismo, basta coi sussidi caritatevoli, quindi, si alla coesione come si realizza con l’adesione all’Europa, alle sue regole di responsabilità e di interdipendenza comune e di solidarietà, al multilateralismo che garantisce un ordine giuridico mondiale.

Anche allora citò De Gasperi, come l’ha ricordato nell’edificante pastorale di presentazione del Pnrr, in veste di profeta della rinascita postbellica, un momento epico e eroico, nel quale  è lecito rimettere in discussione principi e valori fino alla riabilitazione del babau più criminalizzato, quel debito suscettibile di diventare “buono” se lo si impiaga proprio come nelle famiglie per investire “fini produttivi ad esempio, nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc.”.

E con quanta commozione è stato accolto il ripetuto invito ai cittadini perché agiscano con consapevolezza, temperanza e coscienza, rivolto in modo da rendere obbligatorio l’impegno a affrontare e farsi carico individualmente e collettivamente dei problemi e dei danni provocati dal sistema e dai decisori, come ormai è imperativo fare in ogni contesto, dal combattere il cambiamento climatico comprando auto elettriche, eseguendo la raccolta differenziata, raccogliendo bottiglie di plastica sul bagnasciuga, all’aderire a fondi e strumenti assicurativi per sostituire i servizi “sospesi” dell’assistenza pubblica, fino alla militanza nel terzo settore per dare il proprio contributo volontario al posto della solidarietà e della coesione sociale.

Un libro di Leonard Mazzone edito da Orthotest, ci offre la perfetta definizione di questo atteggiamento, secondo l’interpretazione di de la Boétie: si intitola infatti Ipocrisia, e cita illustri precursori incarnati dalla setta “degli apostoli dell’egoismo”,  quella cerchia degli arrampicatori in abito gessato, descritti da Elias Canetti, che approfittando delle politiche neoliberali avviate dalla Thatcher “hanno depredato la madre patria di ciò che un tempo quest’ultima aveva carpito in tutte le contrade del globo… lo Stato dichiarò che non si sarebbe fatto carico di nulla e ciascuno si sarebbe preso cura di sé…. “. Secondo Canetti si scoprì così che l’egoismo non meno dell’altruismo si presta a diventare oggetto di predica, autorizzando un popolo, in quel caso quello inglese, ma l’esempio vale per tutti, a essere abietto come gli altri, pur rivendicando una superiorità civile e morale  maturata in secoli.

E si sprecano gli esempi di ostentato cinismo pubblico, che potrebbero essere catalogati sotto la dicitura di “ipocrisia democratica”, mutuati poi a livello personale dalla massa, grazie alla commercializzazione di ideali diventati merci di consumo, antirazzismo, antifascismo, ambientalismo, fruttuosi prodotti della falsa coscienza, che ha modernizzato e attualizzato principi civili o confessionali, anche grazie a regole ormai universali di bon ton, per adeguarli alla necessità delle limitazioni di libertà, della riduzione della sicurezza a ordine pubblico, della obbligatorietà dell’abdicazione alle visioni utopistiche, dell’opportunità di rinunciare a garanzie, prerogative e diritti incompatibili con il benessere diffuso.

Qualcuno magari è confortato da questo ritorno all’ipocrisia, dopo che potenti sfrontati avevano deciso di non accollarsi più la fatica di fingere comunanza col popolo, mostrandogli comprensione e accondiscendenza, sentimenti catalogabili come cedimenti al populismo.

Qualcuno ha dato fiducia all’ostensione di pietà e compassione di esponenti di governi che hanno prodotto le più bieche disposizioni in merito all’immigrazione e ai blandi aggiustamenti intervenuti per addomesticarne i connotati più abbietti, anche se è evidente che la strumentalizzazione di valori viene impiegata per rendere più tollerabile la produzione e riproduzione di varie forme e manifestazioni di oppressione e sfruttamento.

Qualcuno è stato e è incline a dare retta alla panoplia di privazioni “consensuali” di dignità, garanzie, sicurezze che vengono presentate come doverose per assicurare un futuro alle generazioni a  venire e per riportarci a standard di benessere che avremmo goduto nella “precedente” normalità.

Sarebbe ora che qualcuno ammettesse che l’ipocrisia funziona perché riconosce e usa il ruolo passivo di chi la subisce nell’accreditare e accettare le credenze e le menzogne che assicurano e conservano i rapporti di forza e di dominio. Solo così sarebbe possibile smascherare i giochi di potere e di guerra grazie ai quali chi comanda esige che vengano comprese e assolte le sue pretese  di irresponsabilità, di impotenza o di ignoranza, in modo da giustificare inazione o crimini;  oppure quella che fa passare per interesse generale un’istanza funzionale a benefici particolari; o quella che, avvalorando come inevitabili e fatali scelte politiche attribuite all’urgenza del momento, da misure di emergenza le trasforma in continuativo stato di eccezione.

Per concedere qualcosa alla fisiognomica, rivisitata secondo i crismi hollywoodiani, l’effigie del Presidente del Consiglio in carica rievoca più che l’incarnazione algida di un rebus criptico, la faccia di un rapinatore che non si toglie mai la calza di nailon che usa nell’esercizio delle sue mansioni. Visto che non divide il malloppo con noi, dovremmo smettere di fargli da palo.

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