L’affare carburanti è più remunerativo e meno rischioso di quello della droga e i clan coinvolti in questa maxi operazione lo avevano capito. A Salerno, Napoli, Avellino, Caserta, Cosenza e Taranto, i Comandi Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Salerno e Taranto hanno complessivamente impiegato 410 uomini per dare esecuzione a 45 misure cautelari personali (26 in carcere, 11 agli arresti domiciliari, 6 destinatari di divieto di dimora e due misure di sospensione di sei mesi a carico di due finanzieri) – con sequestri di immobili, aziende, depositi, flotte di auto-articolati, emesse dai GIP dei Tribunali di Potenza e Lecce, nei confronti di 45 indagati, indiziati di associazione mafiosa, associazione a delinquere finalizzata alla commissione di frodi in materia di accise ed IVA sugli olii minerali, intestazione fittizia di beni e società, riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro di provenienza illecita.
Le indagini hanno fatto emergere distinte ma collegate organizzazioni criminali riconducibili al clan dei casalesi ed ai clan mafiosi tarantini, il cui business era rappresentato da un contrabbando di carburanti che ha cagionato allo Stato danni economici per decine di milioni di euro.
Scoperto quindi il meccanismo illecito che ha comunque sfruttato le maglie di una normativa che si è stratificata nel tempo e che, in un lodevole sforzo di liberalizzare il mercato ed incentivare la concorrenza e le attività agricole, ha paradossalmente incentivato un giro di frodi all’IVA e di evasione delle accise. A rimetterci, oltre lo Stato, anche la concorrenza onesta.
Il filone investigativo che ha riguardato la Provincia di Taranto, ha fatto emergere l’esistenza di una associazione di stampo mafioso compattata attorno alla figura di Michele Cicala, già condannato con sentenze definitive anche per estorsione aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso ed associazione per delinquere, con legami con componenti del clan tarantino Catapano – Leone. Un sodalizio caratterizzato per la capacità di controllo del territorio.
Nel corso delle indagini è emerso che l’associazione aveva saldato la propria attività con quella gruppi criminali operanti da tempo negli stessi. In sostanza, venivano vendute ingentissime quantità di carburante per uso agricolo, che come noto beneficia di particolari agevolazioni fiscali, a soggetti che poi lo immettevano nel normale mercato per autotrazione, assai spesso utilizzando le “pompe bianche”.
I “tarantini” fornivano ai lucani un elenco di nominativi le cui identità fiscali e i libretti UMA venivano clonate in modo che le imprese del sodalizio campano/lucano potesse fatturare fittiziamente la vendita del carburante per uso agricolo a ignari, imprenditori agricoli, mentre i realtà il prodotto veniva venduto in nero a operatori economici che lo immettevano nel mercato per autotrazione con guadagni di circa il 50 per cento sul costo effettivo di ogni litro di benzina e nafta venduti.
I due sodalizi riuscivano a ingannare il sistema telematico dell’Agenzia delle Entrate, non in grado di consegnare la fattura elettronica al fittizio cliente/agricoltore apparente destinatario del carburante che, quindi, rimaneva inconsapevole della finta operazione di vendita effettuata utilizzando il suo nominativo.
Decisamente interessante il sistema utilizzato durante il trasporto del prodotto, in questo caso, nell’eventualità di un controllo da parte delle Forze di Polizia, l’autista azionava un apposito congegno elettromagnetico che azionava una pompa che iniettava il colorante (il carburante agricolo ha una colorazione diversa da quella del carburante normalmente usato per autotrazione) allineando il prodotto ai documenti esibiti.
In assenza di controllo, il camion giungeva ai depositi commerciali riconducibili agli indagati, simulava lo scarico del prodotto (sostando a favore delle telecamere di sorveglianza per un tempo compatibile a quello realmente necessario per le operazioni) simulava il carico di gasolio per uso autotrazione (con gli stessi accorgimenti) e ripartiva scortato da documenti fiscali di accompagnamento clonati rispetto alla numerazione del registro di carico e scarico attestanti il trasporto di gasolio per uso autotrazione che sarebbero stati registrati in caso di controllo.
Una volta giunto al destinatario finale senza controlli, il DAS clonato veniva strappato e l’operazione non registrata. Dunque si completava così la vendita in nero del carburante agricolo utilizzato invece e venduto (ad un prezzo quasi doppio) per normali fini di autotrazione.
Un’attività che ha fruttato profitti, quantificati in circa 30 milioni di euro all’anno.
Sul versante lucano l’indagine – avviata su iniziativa di questa Direzione Distrettuale Antimafia alla fine del 2018 – partiva da una delega alla polizia giudiziaria (in una fase iniziale i Carabinieri della Compagnia di Sala Consilina e del Nucleo Investigativo di Salerno, poi anche la GdF di Salerno) di procedere ad un’analisi ad ampio spettro sul territorio del basso salernitano (che solo negli ultimi anni è passato alla competenza della DDA di Potenza) allo scopo di individuare operatori commerciali prestatisi come terminale occulto per il reinvestimento di capitali illeciti da parte di sodalizi criminali esogeni.
L’attenzione veniva subito concentrata sulla posizione della società Carburanti Petrullo s.r.l. di San Rufo (SA) e più in generale sulle società di carburanti del Gruppo Petrullo, la quali – per la dinamica delle loro dimensioni, struttura, relazioni e comportamenti “spia” – palesava una serie di profili di incongruità, quali l’inspiegabile aumento esponenziale dei fatturati e degli investimenti nel giro di pochi anni .
Emergeva così dalle indagini che il rilevantissimo boom economico della ditta Petrullo coincideva con l’ingresso nelle compagini societarie del Petrullo, quali soci e gestori di fatto, dei componenti della nota famiglia casertana (di San Cipriano d’Aversa) dei Diana, i cui componenti avevano investito nell’impresa, in forma occulta, capitali provenienti – con ragionevole certezza e comunque a livello di gravità indiziaria – da pregresse attività illecite, specie nel settore del traffico di rifiuti, attività di rilevantissime dimensioni (“Operazione Re Mida”) in relazione alle quali era stata contestata, a suo tempo, dalla Procura di Napoli, a Diana Raffaele, l’aggravante della finalità agevolatrice del clan dei Casalesi.
Dall’inizio del 2019, sono state quindi eseguite, sia dalla DDA di Potenza che da quella di Taranto e dalle rispettive polizia giudiziarie, attività tecniche che nel corso dei 14 mesi di inchiesta aveva avviato una verifica fiscale ai fini delle accise e dell’IVA nei confronti delle società del Petrullo che ha portato la DDA di Potenza a contestare ai componenti del gruppo economico criminale facente capo a Petrullo ed ai Diana oltre che i numerosissimi reati di contrabbando, frodi all’IVA, estorsioni e truffe, anche il delitto di associazione a delinquere aggravata dalla finalità di agevolare il clan dei casalesi, attraverso la penetrazione in un nuovo territorio ancora immune da tale fenomeno (quello del Vallo di Diano) di una imprenditoria criminale apripista del sodalizio mafioso.
Fin dai primi riscontri, è stato accertato che la società, attiva nel mercato del commercio di prodotti energetici, era in concreto divenuta il canale privilegiato attraverso il quale la famiglia Diana (si ripete, inquisita per aver “avvelenato”, nel tempo, la propria terra di origine con il traffico di rifiuti) si era infiltrata nel tessuto economico-sociale del Vallo di Diano, stringendo a questo scopo un accordo con Massimo Petrullo, titolare dell’omonima società di carburanti ed avamposto dei Casalesi in quel territorio e con altri esponenti dell’imprenditoria locale.
In ragione della complessità della materia è stato affidato al Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Salerno e Taranto il compito di quantificare e certificare l’illecito profitto ottenuto attraverso la sistematica evasione di accise ed IVA, affiancando gli investigatori dell’Arma nella ricostruzione delle diverse fasi dell’articolata frode. Un contesto investigativo esteso a partire almeno dal 2015 alle aziende riferibili al clan tarantino.
I capitali acquisiti venivano reimpiegati nell’acquisizione di beni immobili e quote societarie, realizzando un’economia illecita “circolare”, che ha permesso alla famiglia Diana di affermarsi gradualmente quale player commerciale di riferimento nella compravendita illegale di idrocarburi nel Vallo di Diano, alterando le dinamiche del libero mercato e della concorrenza.
Particolarmente rilevante è stata infine, l’entità delle misure accolte dai GIP di Potenza e Lecce, i quali hanno disposto il sequestro preventivo delle società Carburanti Petroli s.r.l., Dipiemme Petroli s.r.l., Tor Petroli s.r.l., Autotony s.r.l. ed altri 8 compendi aziendali oltre a denaro contante, veicoli, camion, autocisterne, immobili, beni di pertinenza dei singoli indagati, fino alla concorrenza di un ammontare complessivo di circa 50 milioni di euro.
(Nella foto, da sinistra: comandante provinciale Massimo dell’Anna, generale Francesco Martana comandante generale Puglia, tenente colonnello Antonio Antonucci)
Redazione Corriere di Puglia e Lucania