Principale Ambiente, Natura & Salute La vita ‘a metà’ delle donne con l’endometriosi

La vita ‘a metà’ delle donne con l’endometriosi

Ne soffre fino al 15% delle italiane in età riproduttiva. Sono 3 milioni le diagnosi conclamate. Laura ed Elena, due giovani di Sassari, hanno raccontato all’AGI l’incubo di una patologia sottovalutata che può compromettere la capacità di diventare madri e condizionare la sessualità.

“È come sentirsi rotta, vivi al 50 per cento”. Laura Maninchedda, 36 anni, di Sassari, fa parte di quel 10-15% di donne italiane in età riproduttive affette da endometriosi, una malattia invalidante cronica, caratterizzata dalla presenza, anche all’esterno dell’utero, della mucosa che di norma riveste la cavità interna dell’organo. “Ho dolori da quando ero giovanissima”, ricorda Elena Crobu, 38 anni, sassarese, con una diagnosi al quarto stadio. “Dolori che in fase acuta non consentono di stare seduta, che mi costringono a mangiare con le gambe distese e a non riuscire a lavorare stando seduta alla scrivania”.

Sia Laura che Elena – raccontano all’AGI, che le ha sentite in occasione della recente Giornata mondiale dell’Endometriosi – hanno ricevuto una diagnosi dopo anni di disturbi, nottate in pronto soccorso, settimane costrette a letto e continue visite ginecologiche senza risposte: “Dai 18 ai 36 anni ho cambiato dieci ginecologi”, ricorda Elena. “Solo l’ultimo due anni fa mi ha diagnosticato l’endometriosi”. I dolori arrivano con il ciclo mestruale, ma diventano persistenti e cronici e possono rendere un incubo la vita quotidiana: “Faccio un lavoro che mi porta a stare quattro ore al giorno in piedi”, racconta Elena, “ma arrivo a fine giornata che è come se ci fossi rimasta dodici ore”.

“Esagerata, non hai voglia di lavorare!”

 Nella maggior parte dei casi le sofferenze rientrano anni prima che arrivi una diagnosi. Nel frattempo – raccontano le donne che ne hanno fatto l’esperienza – chi ti sta intorno, dal datore di lavoro, alla famiglia e fino al partner, fa fatica a capire perché per giorni non si ha la forza di muoversi, perche’ si saltano appuntamenti all’ultimo minuto, perché non si riesce ad avere rapporti sessuali. “Cosa vuoi che sia?”, “Non lo vuoi affrontare”, “Devi cercare di reagire”, si sentono ripetere da sempre le donne con l’endometriosi quando ancora non sanno di averla. L’elenco delle frasi fatte prosegue con i classici “Sei esagerata”, “Non hai voglia di lavorare”, “Hai una soglia del dolore troppo bassa”.

“Chi ti sta vicino non comprende, pensa che siano scuse per non fare, ma io vorrei spaccare il mondo, vorrei fare mille cose”, confessa Laura Maninchedda. “Il mio corpo, però, non risponde, non me lo permette”. Laura ha due figlie di 15 e 7 anni: “Ho avuto la fortuna di diventare mamma a vent’anni. Questo mi ha consentito per alcuni anni di stare meglio, con dolori più attenuati, ma ora ci sono e sono acuti e avrei così voglia di stare bene”. La patologia interessa circa il 30-50% delle donne infertili o che hanno difficolta a concepire.

“Spesso ho dovuto rinunciare alla vita sessuale con mio marito”, si rammarica Elena, “per i dolori durante l’atto: questo in alcuni momenti ha condizionato il nostro rapporto. Inoltre, non riuscivo a restare incinta, per questo sono andata da un ginecologo che finalmente, due anni fa, ha fatto la diagnosi. Un intervento oggi mi dà almeno la speranza di provare a realizzare il sogno di diventare madre”. Intervenire chirurgicamente non significa debellare la malattia, ma consente di stare meglio per un po’, una parentesi più o meno lunga, che può variare in modo soggettivo da alcuni anni a un tempo più prolungato.

Oltre al dolore, l’isolamento

“La malattia resta e puo’ ripresentarsi”, sottolinea Elena Crobu. “Sono pochi gli specialisti in Italia in grado di fare un intervento così delicato. L’endometriosi è poco conosciuta e che anche gli specialisti fanno fatica a riconoscere per questo chi ne soffre non sa di averla e per anni patisce senza sapere quale sia la causa, dovendo affrontare non solo il dolore cronico, ma anche l’isolamento”. Tra gli effetti dell’endometriosi rientrano anche i repentini cambi d’umore dovuti agli scompensi ormonali: “Un attimo prima sono di buon umore e dopo poco posso essere irritabile”, chiarisce Laura. “Questo non viene capito da chi ti sta accanto e porta anche a momenti di solitudine”.

Alcune donne arrivano alla depressione a causa dei disturbi fisici e delle implicazioni sociali. L’endometriosi è riconosciuta come malattia cronica, tuttavia la strada per la tutela delle donne che ne soffrono è ancora lunga, così come la strada per una cultura dell’accettazione e ancor prima del riconoscimento dei segnali: “Non è normale stare male per il ciclo mestruale, non è normale avere dolori durante i rapporti”, si sfogano Elena e Laura. “Servono specialisti sempre più in grado di riconoscere la malattia fin da subito”. E serve anche un impianto normativo a tutela delle donne affette da questa patologia: in Italia sono 3 milioni le diagnosi conclamate.

Il caso Sardegna

“In Sardegna esiste già una legge approvata nel 2014”, spiega all’AGI Rossella Pinna, consigliera regionale del Partito Democratico, “ma è chiusa dentro il cassetto dell’assessorato alla Sanità. Mi sarei aspettata un segnale più forte dell’illuminazione di giallo della facciata del Consiglio regionale. La Giunta dovrebbe tirare fuori quella legge e attuarla”. La n.26 del 2014 è stata licenziata dall’Assemblea sarda nella precedente consiliatura e prevede la costituzione di un gruppo tecnico-scientifico per individuare le linee guida del percorso diagnostico e terapeutico: “La Sardegna ha bisogno di questa legge per superare il mancato riconoscimento e la diagnosi tardiva dell’endometriosi e creare un centro di riferimento regionale”, conclude Pinna. “La patologia deve essere riconosciuta anche per una serie di tutele come il pagamento di ticket pesanti che limitano il ricorso alle cure”.

Marzo è il mese dedicato all’endometriosi e Elena e Laura hanno condotto una serie di iniziative di sensibilizzazione per far sì che la diagnosi sia sempre più precoce in modo da evitare le degenerazioni della patologia: “Ci mettiamo la faccia perché le nostre figlie, le generazioni future non debbano vivere quello che stiamo vivendo noi“. 

AGI – Agenzia Italia 

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