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Latenza

di Rossella Cerniglia 

Così erano quei sogni, fatti di una sostanza cerebrale, di un continuo rovello che si accaniva in lei nelle notti tortuose, tormentate. Notti in cui non faceva che rigirarsi nel suo letto di pena, aspettando di dormire, con l’impressione di non essersi ancora addormentata e di aspettare il sonno.

   Ma il sonno non mancava, se c’era anche il sogno. E, forse, questo era il rovello. Continuava anche quando lei si rigirava svegliandosi, immaginando di aver elucubrato.

Diveniva un pensare semicosciente e tormentoso. Erano vicende complesse che si accavallavano, si integravano con pensieri vagamente consapevoli, col fatto di essere lì, in quel letto, per esempio, aspettando di dormire.

Erano pensieri bui, e un istante più tardi immagini enigmatiche e inquietanti. Lei si rigirava, ancora una volta, nel letto, un barlume di lucidità le diceva che era un sogno, che non era vero quel tanto su cui si arrovellava; ma poi tornava ad essere nuovamente vero, la conduceva, quasi per mano nei meandri dell’enigma, e lei dietro, a rincorrere qualcosa che la stancava, che le dava un irrisolvibile tormento.

Non si accorgeva di questo trapassare di sogno in veglia e della veglia in sogno. La veglia era minima quanto il sogno era lieve. L’uno scivolava nell’altro inconsapevolmente. Così l’incessante tarlo poteva essere sogno o corrosivo pensiero.

Al mattino c’era un marasma di sensazioni che confluivano, si coagulavano in un punto preciso. Sembrava che additassero esse stesse quel punto, e lei doveva sapere cos’era. Doveva scavalcare il margine, andare oltre, dove qualcosa rimaneva additato. Era un che  tanto straordinariamente vicino e percepibile, pur senza essere niente, niente di cui si potesse predicare qualcosa, niente di riconoscibile e di decifrabile.

Si sentiva proprio come fosse lì lì per raggiungere un significato vicinissimo, a portata di mano. Era sul punto di afferrarlo tanto diveniva concreto, ne poteva sentire l’odore financo, ma per quanto cercasse di tirarlo fuori, di espungerlo da sé per vederselo chiaro davanti, non riusciva, e quello rimaneva per sempre sconosciuto e presente e vivo dentro di lei e inafferrabile, come una parola che ti viene a mancare quando stai per proferirla.

In corpo sentiva accrescersi l’acredine di quest’infruttuoso cercare un appiglio che le mancava. Era una cosa sua, della quale conservava quell’alone preciso che la rendeva viva e persistente, un ineffabile tanto netto e tanto definito, un quid che era stato immagine e pensiero, e che era lì a provocarla perché ancora fosse immagine e pensiero, una cosa cui mancava un niente per essere… ma questo niente non era.

La sensazione perdurava tutto il giorno: quella realtà voleva rinascere, ma rimaneva angosciosamente segregata nell’impotenza di una notte limbica. Da lì, sprigionava un fascinoso richiamo, la strana voglia di essere agguantata, e la materiale sensazione di latenza, di ambiguità: questo esserci senza mai essere. Era un’ingombrante percezione che teneva in bilico due realtà refrattarie e tenacemente contraddittorie.

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