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Veronica Gentili e il suo “Gli immutabili”, libro dedicato al padre in cui si racconta durante il lockdown

IL DIARIO EDITO DA “LA NAVE DI TESEO” CHE RIPERCORRE PASSO DOPO PASSO LA PANDEMIA CHE HA CAMBIATO IL MONDO 

Correva l’anno 2020; “E’ arrivata la Pasqua, prendendoci in contropiede. La smania di risorgere non è mai stata così forte”. Siamo a Pasqua, nulla è cambiato! 

Rileggere oggi il manoscritto di Veronica Gentili, uscito a Novembre, ma concepito in queste ore di un anno fa, è come calpestare ripetutamente le proprie impronte dopo un faticoso peregrinare sul manto nevoso. Da labirinto di siepi alla Overlook Hotel by S. Kubrick. C’è da uscirne pazzi. “Gli immutabili” è uno strumento storico coinvolgente oltreché stilisticamente ben strutturato. L’autrice, con garbo, apre al pubblico tre finestre sullo stesso cortile, il suo! La prima è quella collettiva, attraverso la quale ci rivediamo un po’ tutti (lei in primis), la seconda è quella lavorativa, professionale e la terza va a lambire la sfera privata. Una fusione ben amalgamata di tre “sguardi” della medesima vicenda. Comodamente seduti sulle nostre seggiole riusciamo a vedere dalla finestra “oggettiva” una ragazza con mollettone ai capelli e calzettoni colorati alle prese con: scelta detersivi, rifacimento armadio, imbarazzanti scorte alimentari e angosce sottaciute. Altro non è che noi 12 mesi orsono. Nella seconda invece si palesa il volto noto, la giornalista rimessa in sesto che si accinge a sistemare le cuffiette per accedere alla conferenza Zoom con colleghi, redazione e mondo esterno. Una nuova fenomenologia ancora da assimilare; “non si sa dove guardare”. Tuttavia, the show must go on, soprattutto per chi sta attorno alla cinepresa. Nella terza la questione si fa personale, con la cyclette (rispolverata chissà dove), il mite “Cacciatore” (alias Massimo, il compagno), le interminabili divanate, le amiche lontane, l’ansia e il disorientamento intimo. 33 capitoli di due, tre, cinque, sette pagine cadauno, dipende dall’umore del momento, ove il protagonista, Covid (non “il Covid” mi raccomando, chiamatelo per nome), è “l’invisibile entità maligna, alla quale non si può far altro che offrire il sacrificio delle nostre solitudini”. Un diario di bordo che inizia il 12 marzo, termina a fine Ottobre con pausa estiva per il placarsi dell’ondata e ripercorre le 3 principali fasi dell’anno poc’anzi lasciatoci alle spalle. Il trittico scenario che si presenta agli spettatori in giardino è a dir poco invitante. Dalla finestra “1” riviviamo gli attimi in cui – turbati e frastornati – era appena scoppiata la guerra dei mondi. Dalla coppia dei cinesi dello Spallanzani (preistoria, ma non troppo) ai primissimi dpcm (divenuti veri e propri psicodrammi), per poi gradualmente condurci verso la bieca tumulazione, il ritorno alla caverna, l’utero di cemento, gli arresti domiciliari, la solitudine coatta e prolungata nel tempo che diventa, sorniona e infame, una “sofisticata forma di tortura”.

Il maledetto che tutto volle e tutto ancora vuole: le passeggiate, il cinema, le cene, gli aperitivi, gli incontri, le adunate, i concerti, i viaggi, le lezioni in palestra, le corse al parco, le partite a briscola e le fantasie su dove andare quest’estate. Per non parlare dei matrimoni, i funerali, i compleanni, gli anniversari e la Pasqua. Già, pure quella, oggi come e più di ieri. Nulla è mutato. Strada facendo il film proiettato dalla finestra “1” si addentra nella sfaldatura che Covid ha creato all’interno della comunità tra – nella prima fase – i guardingi e i disinvolti, gli aggiratori e i questuanti antigovernisti e nella seconda e terza, da maggio in poi, tra allarmisti, riduzionisti, buonisti e cattivisti, globalisti, europeisti e non, vaccinisti e anti-vaccinisti. Un virus astuto che ci ha colti di sorpresa, avido, infimo che – come spiega la scrittrice – è insaziabile; “non gli basta vincere con i morti, gareggiare con i malati, invadere subdolamente i corpi degli asintomatici senza che loro ne sappiano niente, rubare l’ossigeno ai polmoni, umiliare farmaci, giocare a guardia e ladri con il vaccino”. Peggio ancora, ha preso le sembianze delle persone a cui vogliamo bene, divorandosi letteralmente i giorni di marzo, le notti d’aprile, l’intera primavera. Amori, abitudini, paure, discordie e malumori, forti malumori misti a rabbia. Cittadini contro lo Stato, lo Stato contro i cittadini, quest’ultimi gli uni contro gli altri che, con introspezione, si osservano in cagnesco e sferrano sciabolate di condanne morali al limite della ghigliottina.

Un western da “Quando un uomo senza mascherina incontra un uomo con la mascherina, quello senza mascherina è un uomo morto”, primi piani alla Leone acclusi. Roba mai vista. Ignari del fatto che, ahinoi, pur variando i punti di vista, la sconfitta non ha risparmiato ambedue le sponde. Una debacle trasversale sia per la perdita di qualcosa di molto prezioso, che non tornerà più: “il tempo!”, sia per la nefasta “strage dei nonni”.

Dalla finestra “2” il regista mette un’altra bobina, che va di pari passo con la precedente. E’ quella del lato professionale della Gentili, il punto di forza. C’è – come sostiene Stephen King – da studiare duramente i meccanismi perversi del nuovo inquilino che ci bussa alla porta unitamente alla sequela incessante di macabri dati che, all’imbrunire, la Protezione Civile ci fa sorbettare da un’infinità di settimane. Il contorto binomio “pandemia-politica” è una piaga sconosciuta persino agli onniscienti media. E quindi le consultazioni arrivano finanche a Boston, da uno degli Alessandri che la circondano, il più importante, il Vespignani, non il giornalaio (che pure è un bravo signore e un attento osservatore) o il suo capo autore, ma il fratello scienziato che già nel pranzo natalizio (l’ultimo pre-chiusura) l’aveva perentoriamente avvisata. Ma lei scettica, alle prese con Bianca, la bimba “firmata” Walt Disney (figlia della sorella Marta) monopolizzatrice della lieta reunion, non lo prese troppo sul serio. Dalle pantofole all’informazione il passo è breve e anche un po’ sfigato perché ad attenderla il sabato, in diretta, c’era l’implacabile (ex) Conte che le riservava una filippica serale da litania dei Santi, nessuno escluso. Ma il lavoro non era e non è più lo stesso. Redazione ridotta ai minimi termini, accorgimenti maniacali, niente ospiti in studio, microfonate a metri di distanza e litri di disinfettante sotto il tavolo. D’un tratto il solito tragitto da San Lorenzo al Palatino, passando rigorosamente per il Muro torto (là dove è impossibile perdersi) si è metamorfizzato. Stavolta a farle da cornice l’attende una Roma surreale, post apocalittica.

Spostandoci di poco verso il finestrone numero “3” ci accorgiamo che c’è più ressa. I curiosi si accalcano, ma era scontato. Sono i “lumaconi” che la osannano sui social. Difatti, in bellavista, a far capolino si intravede colei che tutti vorrebbero conoscere e che, in questo diario-déjà-vu, vuol concedersi seppur a piccole dosi, denudandosi della sua consueta finta corazza. E’ l’apprensiva, la fragile, l’inquieta, la misantropa allo stato puro, quella del lockdown vissuto con doppiezza, per lei (sorprendentemente) più in versione pace dei sensi che ristrettezze, la quale, dopo l’approvvigionamento estetico della sera prima, rivendica, con orgoglio, un “cospicuo bonus pigiama”. Di buon mattino (che nel suo caso è un eufemismo) le telefona Margherita “Marghe” dalla Penisola Iberica, Barcellona per l’esattezza, co-ideatrice della pseudo sceneggiatura sugli otto personaggi shakespeariani rinchiusi nella casa del GF, mentre il “Cacciatore”, il paziente Massimo, è alle prese coi panni in balcone e le verdure sui fornelli. In zona anta sinistra del finestrone si scorge una Veronica preoccupata, è arrivata la notizia della sua cara Lucia, ricoverata allo Spallanzani. I polmoni sono invasi, verrà trattata – lei come altri – alla stregua di “ordigni esplosivi esposti in una teca di vetro”. C’è poco da stare allegri, Covid ha preso anche i suoi affetti.

Dopo Lucia è il turno di Giorgia, la regina delle lunghe note vocali conosciuta il primo anno d’Accademia, alla quale la lega 18 anni di vera amicizia e Guja, “compare” di culla, di segreti e di scorribande adolescenziali sin dai fasti delle rimpatriate ai piedi di “Iddu”, quel vulcano sito sull’isola di Stromboli assai adorato da entrambe le famiglie. E poi ci sono Ottavio e Lorenzo, i nipoti d’oltreoceano figli del preveggente “Alex” e il fastidioso peso sul petto dinanzi ad una desolata Piazza di Spagna e al cospetto di 24 panchine senz’anima. Vulnerabilità elevata al cubo. Niente le è concesso, nemmeno un abbraccio dal suo eroe, quel padre Giusepppe che “non mi ha mai lasciato la mano”.

A donare un pizzico di sollievo ci pensano il lavoro e la lettura, la politica ed i protocolli, Gibran e il progetto per “La nave di Teseo”, i decreti presidenziali e il copione per le messe in onda, con l’amara consapevolezza che l’immagine delle bare di Bergamo, il volto dell’infermiera segnata dalla lotta e la solitudine di Papa Francesco a San Pietro non saranno le icone definitive di codesta sciagura biblica, giacché – come ella giustamente chiosa – il sipario non si è ancora chiuso. La domanda allora è inevitabile. Davvero tutto questo ci ha cambiato? No. Macché. In fondo il nostro è un popolo d’indole ottimista, speranzoso – “abbiamo più risorse di quante non sappiamo di avere”, per giunta abituato a vivere alla giornata (il ché aiuta), poi qualcuno – dall’alto dei cieli – statene certi, provvederà.

Lo stile narrativo è rapinoso, mirato, tecnicamente limpido, a tratti virtuoso, dettagliatissimo in alcuni punti e spartano in altri, dalla mitologia greca al romanesco doc, dall’Eneide a Confucio, dall’Odissea a Wilde, dalle citazioni filosofiche al “non me rompe er ca” del Gigettone nazionale. Ogni capitolo è a sé stante, un libro nel libro che sfuma come nasce. Piccoli cerchi dalle personalità indipendenti inglobati in un contesto più ampio.

E’ un’eccellente pubblicazione che riletta fra 10 anni ha altresì un senso didattico, storico, rievocativo. Non è un caso se la conduttrice di Mediaset, già premio Sulmona per il giornalismo 2020, cresciuta al ginnasio Mamiani, si sia guadagnata un posto d’onore in una delle più delicate fasce orarie televisive e sia addirittura piombata sulla lista Forbes. Poco oro-colato e tanto mazzo. Forse la giovane attrice che scese le scalette dell’Airbus a Tirana per Balkan Bazar e che ora, maturata, ci suggerisce di acquattarci come felini, sapeva, in epoche non sospette, che per capire appieno la norma occorre sempre conoscere l’eccezione. E oggi, quell’eccezione chiamata Covid, ce la racconta con dovizia di particolari nello spazio e nel tempo d’una manciata di fogli, all’interno dei quali è racchiusa la sua, la nostra, ultima tragica esperienza di vita. 

(testo fonte: affaritaliani.it –

https://www.affaritaliani.it/libri-editori/il-diario-deja-vu-veronica-gentili-covid-la-storia-si-ripete-730842.html)

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