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La presenza nascosta del culto di Asclepio nella ritualità del tarantismo – Intervista

Intervista di Maria Angela Amato al Prof Romualdo Rossetti

L’interpretazione proposta dal Prof.  Rossetti (nella foto), già docente di Filosofia e Scienze Umane presso vari licei, cultore di ermeneutica del mito classico ed esperto di sociologia e antropologia culturale, colloca il Tarantismo all’interno del culto di Asclepio di origine pre-ippocratica e ne rintraccia le impressionanti analogie rituali e culturali, discostandosi nettamente dall’interpretazione canonica data dall’importante etno-antropologo napoletano.

 

Buon giorno Prof. Rossetti da quanto tempo si interessa di tarantismo?

Da un bel po’di anni. Essendo nato a Galatina ho subito fin da piccolo il fascino di questo rito così particolare. Dai racconti di mio padre emergeva, però, quasi una sorta di irrisione nei confronti di quante, o quanti, giungevano in pellegrinaggio a Galatina da tutto il Salento, ma anche da oltre, per chiedere, o “pretendere” di ottenere la grazia da San Paolo per una perenne guarigione dal malessere, che a loro dire, era stato inviato dal santo stesso per punire qualche loro manchevolezza, tramite il morso di una tarantola o la puntura di uno scorpione. A volte anche l’uccidere, magari inavvertitamente, un piccolo serpente costrittore, detto scurzune, caro a San Paolo, poteva scatenare l’ira di quest’ultimo e la conseguente punizione. Fu ai tempi dell’università che mi riavvicinai al tarantismo, grazie alle lezioni del compianto prof. Pio Rasulo, mio docente di Estetica che, trattando il tema antropologico della “Festa”, da marxista convinto, ma soprattutto da lucano d.o.c., non potette non soffermarsi su De Martino e le sue ricerche sul folklore.

Perché suo padre irrideva le tarantate?

Deve sapere che per i Galatinesi il tarantismo è stato sempre qualcosa di cui non andare certamente fieri. Per la stragrande maggioranza di loro rappresentava il segno inequivocabile di un’arretratezza rurale, se non di una vera e propria idolatria religiosa intrisa di superstizione.

Lei è dello stesso parere della stragrande maggioranza dei Galatinesi?

Certamente no, nonostante sia fiero di appartenere a quella schiera di dispensati dal male del morso della tarantola, in virtù di quell’antica immunità elargita filantropicamente da San Paolo a quanti sarebbero nati sul territorio di Galatina, che gli aveva concesso asilo durante le sue evangeliche peregrinazioni. Scherzi a parte…pur non credendo a tale “leggenda aurea” ancora presente nel Salento, non posso esonerarmi dal credere fermamente nell’effettivo malessere di chi ricorreva a questo antico rito di liberazione. È bene, però, parlare della “stragrande maggioranza dei galatinesi”, perché nel corso degli anni vi sono state delle eccezioni che hanno offerto un’interpretazione diversa che merita menzione, anche se diametralmente opposta alla mia.

Ci può parlare di qualche studioso galatinese del tarantismo che abbia proposto un’importante “eccezione” del fenomeno che le sia particolarmente rimasta impressa?

Certo! Le faccio il nome del Prof. Giancarlo Vallone, valente studioso di storia patria, nonché ordinario di storia del diritto medievale e moderno presso l’ateneo salentino. Vallone è stato colui il quale si è discostato più di tutti a Galatina dall’interpretazione canonica che, con La Terra del Rimorso, De Martino ha offerto ai suoi lettori, rimanendo però nello stesso ambito contrassegnato dal magismo rituale.  Il prof. Vallone rifacendosi alle tesi di un altro illustre galatinese del XVI sec. Alessandro Tommaso Arcudi, un dotto letterato appartenente all’Ordine dei Padri Predicatori, ha riproposto al pubblico appassionato la possibilità di far risalire l’origine del fenomeno curativo galatinese nell’intercessione di alcune donne appartenenti ad una medesima famiglia, la Fraina, che stando ai racconti locali, aveva ricevuto in dono da San Paolo il carisma taumaturgico di guarire i malati del morso della tarantola tramite il loro sputo.

Quindi professore uno sputo? Può spiegarcelo meglio? 

Deve sapere che sin dagli albori della medicina la saliva umana o animale, come poi è stato anche scientificamente provato, possedeva il potere di curare le ferite e si supponeva guarisse anche i malesseri. Una certezza questa presente anche nel Cristianesimo. Si ricorda della vicenda di Gesù e dell’uomo nato cieco, di Gerusalemme, riportata nel Vangelo di Giovanni? Bene, prima di operare la guarigione miracolosa, Gesù sputò per terra, mescolò la sua saliva con della polvere di strada e dopo aver spalmato sulle palpebre del cieco quell’impasto gli ordinò di andare a lavarsi gli occhi nell’acqua della Piscina di Siloam. Una volta fatto tutto ciò il miracolo avvenne e l’uomo cieco dalla nascita vide per la prima volta. Le donne della famiglia Fraina operavano grosso modo alla stessa maniera, anche se sicuramente in tono minore. Si narra, e Vallone lo riporta, che l’ultima superstite di quella famiglia prima di morire, per evitare che terminasse con la sua dipartita la missione affidata alle sue progenitrici dal santo di Tarso, pensò bene di sputare nel pozzo della casa in cui era stato ospitato S. Paolo, per renderlo “miracoloso” per le generazioni future, e per quanti avessero posseduto la fede di fruire di quell’acqua dalle virtù medicinali ed emetiche.

Lei crede a questa versione sull’origine del tarantismo?

Assolutamente no, anche se la trovo, come dire, molto meno convenzionale delle altre, perciò molto più interessante.

 Può parlarci di altre interpretazioni meno convenzionali del tarantismo da parte di studiosi non galatinesi?

Ne conosco molte. Quelle che ho apprezzato di più sono state due che ho ribattezzato come le più “pettazzoniane” di tutte, ovvero quelle che hanno esaminato il fenomeno del tarantismo da un punto di vista più squisitamente mitologico, come era solito fare il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni.

Quali sono?

Sono le letture del fenomeno date dal compianto Prof. Georges Lapassade e dal Prof. Maurizio Nocera, entrambe legate al mito ellenico. Quella di Lapassade rifacentesi al Coribantismo e agli stati di trance in questo presenti, quella di Nocera, invece, concernente essenzialmente il mito di Aracne.

Può brevemente spiegare ai lettori l’interpretazione del tarantismo lasciataci dal Prof. Lapassade?

Certo, ma prima mi permetta di raccontarle un piccolo simpatico aneddoto che ricordo con molto affetto. Georges Lapassade fu la persona con la quale condivisi il banco durante la mia prima lezione presso l’Università di Lecce molti anni addietro. Lapassade era solito seguire, quando aveva del tempo libero, le lezioni tenute dai suoi colleghi leccesi. Quella volta ascoltavamo la lezione di Pedagogia, poi fu proprio la professoressa a dirci che quella persona anziana, dall’aspetto alquanto trasandato, era uno dei maggiori sociologi ed etnologi francesi, noto in tutto il mondo per i suoi studi sulla trance e per aver introdotto in Francia l’etnometodologia. Grazie ai suoi studi Lapassade ha ampliato il campo d’indagine antropologica, rintracciando sopravvivenze di riti di esorcizzazione coreutico-musicale, similari al tarantismo, lungo tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche altrove.

Se per De Martino l’esorcismo avveniva per estromissione del male tramite alcune azioni rituali operate dall’infermo, come con la sudorazione indotta dal ballo sfrenato o col vomito conseguente alla volontaria ingestione dell’acqua “grossa” del pozzo di San Paolo, Lapassade è andato molto più in là della contestualizzazione storico-sociale della propria latitudine culturale.  Ha rintracciato in alcuni antichi riti di possessione, talvolta ancora presenti in particolari e lontane aree geografiche, la medesima origine “dionisiaca” presente nel tarantismo. Logicamente va ricordato che da Nietzsche in poi, specie con autori del calibro dello storico delle religioni Henri Jeanmaire e del musicologo Gilbert Rouget, nonché del nostro filosofo Giorgio Colli, il dionisiaco ha assunto un ruolo sempre più determinante nella cultura occidentale. Bene, Georges Lapassade ha avuto il merito, nonché il coraggio, di oltrepassare il rigido limes culturale dell’Occidente, analizzando e comparando culti e riti di quell’altrove che risulta essere a noi sempre più prossimo.

Ci parli anche dell’interpretazione del Prof. Nocera.

Maurizio Nocera ha invece voluto riallacciare il tarantismo alle gesta di Aracne, scorgendo delle importanti corrispondenze nella simbologia propria della taranta con quelle del mito greco in questione. Nocera con la sua minuziosa indagine lessicale ha fornito addirittura una nuova interpretazione riguardante il nome di Galatina; interpretazione che accetto completamente e che avvalora la mia ipotesi riguardo l’antica funzione del “pozzo di San Paolo”. Il nome Galatina, a suo parere, deriverebbe si dall’etimo greco gala-gàlactos che richiamerebbe il “latte”, ma non certo in riferimento alla feconda zona bucolica su cui sorge il centro urbano come comunemente si è portati a credere, quanto piuttosto dal candore delle acque sulfuree presenti nel sottosuolo galatinese, che avrebbero richiamato anticamente l’idea del latte di capra, cosa che avrebbe generato l’ancestrale culto della Dea Madre, la sostentatrice degli uomini e degli animali, di cui Atena altro non sarebbe stata se non la successiva sovrapposizione mitologica, subentrata col tempo anche nel significato del toponimo della città ovvero “Atena del latte”. L’ermeneutica del mito classico di Nocera lascia affascinati per la ricchezza intuitiva delle argomentazioni trattate.

Ci può spiegare brevemente qual è la sua interpretazione riguardo l’origine del tarantismo?

A mio avviso l’origine del tarantismo affonda le sue radici nella protostoria mediterranea, in quella continua contaminazione di culture differenti che si coagulò in Grecia intorno alla figura di Asclepio, il nume della medicina nonché anche intorno alla sua numerosa paredria. In altre terre che si affacciavano su quella che fu la maggiore via di comunicazione e di contaminazione culturale del passato, il Mar Mediterraneo, la divinità assunse altre denominazioni, Eshmun in Fenicia, Imoteph in Egitto ma sostanzialmente si trattò dello stesso personaggio la cui missione fu quella di rendere più “dolce”, più sopportabile l’esistenza dell’uomo sulla terra, grazie alla possibilità di un suo soteriologico intervento, volto a trovare un rimedio per poter ottenere una guarigione dal malessere fisico, esclusivamente fisico… non psichico.

In che senso “esclusivamente fisico… non psichico”? Ci spieghi meglio.

Anticamente in Grecia, ma non solo, quello che oggi siamo portati comunemente ad intendere come un “malessere psichico” non era considerato affatto una sofferenza d’animo o di mente, quanto piuttosto, un segno rivelante dell’essere entrati in comunione col divino. La Manía, che successivamente è stata tradotta con “follia”, “pazzia”, possedeva in origine una connotazione sacra. Fu, poi, con la successiva concettualizzazione della spiritualità che venne intesa, demologicamente parlando, come “possessione negativa”.

De Martino, a mio modesto avviso, su questo punto ha equivocato, probabilmente perché ha considerato il malessere psico-fisico prevalentemente sotto la lente interpretativa di matrice giudaico-cristiana.

Anticamente si ricorreva ad Asclepio e ai suoi paredri per chiedere prevalentemente la guarigione dai mali fisici, fu successivamente, tramite le molteplici contaminazioni culturali provenienti dalla “Mezzaluna Fertile” che la demonologia assunse una connotazione culturale differente e la malattia venne considerata alla stregua di una punizione inflitta da una divinità all’uomo, per una serie di molteplici ragioni, il più delle volte come conseguenza di atti empi.

A tal proposito ci basti ricordare che anche nell’Iliade, che non va considerata come un’opera narrante un’epopea puramente occidentale, come invece comunemente si crede, la pestilenza scoppiata nel campo degli Achei fu scatenata dal dio Apollo per vendicare lo scellerato atto di Hybris compiuto da Agamennone nei confronti del suo sacerdote Crise, quando, dopo aver schiavizzato e brutalizzato la figlia di quest’ultimo Criseide, si era rifiutato di restituirla a suo padre che lo supplicava di farlo.

Asclepio per la sua misericordia venne ricordato anche come l’agatodemone, il demone “buono”, il nume filantropo ed empatico, ucciso e successivamente deificato per aver sottratto ad Ade i suoi più preziosi clienti… i defunti.  Narra, infatti, il mito che per un periodo di tempo, quando Asclepio operava sulla Terra, non moriva più nessuno e per rimettere le cose a posto, dovette intervenire Zeus in persona che si vide costretto a folgorare Asclepio – che tra le altre cose era anche suo nipote in quanto figlio di Apollo – per placare l’ira funesta di suo fratello il “Signore degli Inferi” che reclamava i suoi diritti. Successivamente Zeus, in preda al rimorso, divinizzò il nipote trasformandolo nella costellazione dell’Anguitenens o Ofiuco, il tredicesimo segno zodiacale. Che sia stato un semi-dio o un famoso “sciamano”, successivamente idolatrato, poco conta, conta invece il fatto che dalla sua venerazione sia scaturito un vero e proprio “sistema sanitario” ante litteram molto ben articolato e denominato Asclepismo.

Lei cita spesso la parola paredria, ci può spiegare che cosa significa?

Paredria significa semplicemente quell’insieme di divinità specialiste minori al servizio dell’opera della divinità maggiore, in questo caso Asclepio. Nell’immaginario collettivo si pensava gli si sedessero accanto perciò “paredri”. Nell’antica Grecia la parola paredria indicava i sedili destinati ai sacerdoti e ai maggiorenti delle poleis.

Ci può dire quali furono?

I più noti furono Epione, la moglie di Asclepio che a dire il vero non ebbe mai un culto articolato ma gli generò: Igea, ovvero la deificazione della salute, che a Roma sarebbe diventata la dea Salus, Panacea ovvero la divinizzazione della  cura universale, Iaso o la potenza della guarigione, Acheso la dea che sovrintendeva al processo di guarigione, Telesforo il dio della convalescenza, Egle secondo alcuni mitologi la vera madre delle tre Grazie, Meditrina la guaritrice, oltre ai famosi Poladirio il medico della spedizione achea a Troia e Macaone il chirurgo della stessa, da cui sarebbe disceso da parte paterna il sommo Aristotele. Come vede quest’argomento è contiguo tanto alla storia della filosofia quanto alla mitologia.

Esistevano anche animali sacri ad Asclepio?

Certo che ve ne erano. Il gallo era il principale. Lo stesso Socrate prima di addormentarsi nel suo “lungo sonno senza sogni” chiese ai presenti di sacrificare a sua memoria un gallo ad Asclepio. Vi era, poi, il cane per il potere cicatrizzante della sua lingua, il serpente costrittore che ancora oggi viene chiamato “colubro di Esculapio” e compare tanto sulla verga del nume della guarigione divenuto poi il simbolo dell’Ordine dei medici, tanto sulla coppa di Igea divenuto quello dei Farmacisti. Non solo ma vi erano anche alcuni animali sacri ai suoi paredri come la civetta oracolare e la capra per Atena Medica. Non si può escludere che anche lo scorpione e la tarantola anticamente fossero annoverati tra questi.

Era particolarmente diffuso il culto di Asclepio nell’antichità?

Diffusissimo. Molto più diffuso di tanti altri culti e più di quanto si creda. Pensi che stando alle tesi del filologo tedesco Wilhelm Heinrich Roscher che tra le altre cose fu amico di Nietzsche, operavano in Grecia e Magna Grecia ben trecentoventi santuari dedicati ad Asclepio, di cui secondo lo storico Thramer, ben centottantasei edificati anteriormente ad Alessandro Magno.  Se pensiamo poi alla ulteriore diffusione del culto operata dai Romani, con la creazione di altri santuari o con la riconversione di altri preesistenti similari, come accadde in Tracia per esempio, ma anche grazie alla capillare edificazione dei loro Valetudinaria presenti nei Castra, il culto del demone della medicina si diffuse capillarmente ovunque in Occidente.

Quali furono i santuari maggiori?

Tra i maggiori possiamo inserire quello di Tricca, quello di Epidauro, quello di Cos, quelli di Atene (Acropoli e Pireo) quello di Roma che sorgeva sull’isola tiberina dove adesso sorge, guarda caso, l’Ospedale Fatebenefratelli…ma potrei nominarne tantissimi altri, come quello di Pergamo che divenne per molto tempo la dimora abituale del retore ipocondriaco Elio.

In Puglia esisteva qualche Santuario dedicato ad Asclepio?

Probabilmente si, anche se mancano ancora debite conferme archeologiche a supporto. Uno doveva sorgere a Taranto, stando a quanto sostenne l’imperatore Flavio Claudio Giuliano, ricordato indebitamente come “L’Apostata” nella sua opera Contra Galileos. Secondo alcuni archeologi doveva affacciarsi sul bacino del Mar Piccolo. Personalmente propendo a credere che anche a Galatina ve ne fosse uno. Mi auguro che l’amministrazione della città prossimamente possa intraprendere una campagna di scavo archeologico nella zona prospicente la Chiesa matrice, in direzione della Cappella di San Paolo, perché era abitudine dei primi cristiani distruggere i luoghi di culto pagani ed edificare sugli stessi quelli dedicati alla loro religione. Se si riuscisse a trovare solo una prova archeologica, di quello che il prof. Nocera ed io pensiamo da tempo, si darebbe una svolta importante alla ricerca tarantologica.

Da cosa ha preso inizio la sua interpretazione?

Prese inizio quando mi trovai a leggere il bellissimo saggio di Giorgio Cosmacini L’arte lunga storia della medicina dall’antichità a oggi., opera che consiglio a tutti di leggere, quantomeno per comprendere ciò che i virus e i batteri hanno rappresentato per l’umanità nel corso del tempo.

Fu proprio quando arrivai a leggere del rito che veniva praticato in Grecia, presso tutti i santuari di Asclepio, che notai un’impressionante corrispondenza con quanto aveva scritto de Martino ne La Terra del rimorso trattando il caso della tarantata Filomena di Cerfignano. L’anziana donna per ottenere la guarigione “ricorrente” praticava nella cappella sconsacrata di San Paolo a Galatina il rito dell’incubazione onirica. Si addormentava sotto l’altare attendendo che il santo, proprio come accadeva anticamente anche con Asclepio ma non solo, le venisse in sogno per donarle la guarigione o indicarle la via per raggiungerla.

Tuttavia non solo tale analogia mi ha fatto ritenere che nel Tarantismo fosse presente un richiamo all’antico culto iatrico-oracolare legato ad Asclepio e ai suoi paredri, in quanto ho individuato a Galatina altre analogie e simbologie che hanno confermato volta per volta la mia ipotesi. In primis la presenza del pozzo “miracoloso” situato alle spalle della cappella sconsacrata dedicata a San Paolo che ricalca fedelmente la medesima collocazione esistente in tutti i santuari di Asclepio, nonché la sua localizzazione nei pressi della chiesa matrice di cui, le fonti storiche locali, narrano una sua edificazione sulle rovine di un non ben identificato tempio pagano, ma non solo, anche la presenza astrologica della costellazione dell’Ofiuco posta proprio sopra quella dello Scorpione, simbolo importante tanto quanto quello della tarantola la cui puntura poteva scatenare la malattia.  La costellazione dello Scorpione è ben visibile a fine Giugno, guarda caso, nello stesso periodo in cui si svolgeva a Galatina il rito curativo del Tarantismo per intercessione di San Paolo, poi la “civetta oracolare” presente nello stemma cittadino che richiama sicuramente Atena Igea, una delle maggiori aiutanti di Asclepio, ma soprattutto la vicinanza geografica del Salento all’Epiro dove in passato esisteva il famosissimo Asklepieion di Butrinto. Leggendo i miei vari contributi inerenti all’argomento troverete tutto e molto altro scritto nel dettaglio.

Secondo lei perché mai Ernesto De Martino da storico delle religioni, prima ancora che da etnologo, ha scartato questa sua affascinante ipotesi?

E’ un mistero e personalmente sto indagando per comprendere quel “perché”.  A principio lambì il tema del coribantismo antico leggendo quanto aveva scritto lo storico delle religioni francese Henri Jeanmaire, mi riferisco a Le traitment de la manie dans les mystères de Dionysos ed des Corybantes apparso nel 1949 nel “Journal de Psychologie normale et pathologique”. Successivamente De Martino dopo aver pubblicato nel 1961 Tarantismo e Coribantismo sulla prestigiosa rivista “Studi e Materiali di Storia delle Religioni” non tributò più molta importanza a quella lettura e preferì, ne La terra del Rimorso, di fatto fece derivare il tarantismo dal periodo delle Crociate. Probabilmente, ma è una mia personale opinione, perché fece emergere unicamente l’aspetto psico-sociale del fenomeno e non quello storico religioso, in quanto all’epoca fortemente condizionato dalla lettura delle opere di Antonio Gramsci, di Carlo Levi, di Rocco Scotellaro nonché dagli studi di Tolstov, Ghippius e Čičerov collegati al folklore progressivo di matrice sovietica. Se avesse letto con la dovuta attenzione l’opera più importante di suo suocero Vittorio Macchioro – il vero grecista di famiglia – ovvero Zagreus. Studi intorno all’Orfismo, presumibilmente avrebbe orientato diversamente la sua ricerca che avrebbe dato altri frutti. Ciò, però, non è stato!

Quindi lei rimprovera questo a Ernesto De Martino?

No, ci mancherebbe altro! Non si può imputare la colpa a nessun uomo di essere stato una vittima inconsapevole dell’ideologia del suo tempo; figuriamoci se si può rimproverare qualcosa di simile a un fine intellettuale come il nostro etno-antropologo napoletano. Guardi, per intenderci, Ernesto De Martino è stato un pensatore inquieto in cerca di spazi idonei ad accogliere la sua Weltanschauung. È stato anche un profondo conoscitore della metapsichica e il padre fondatore della etno-metapsichica ma, al contempo, è stato sempre “ossessionato” dall’idea del magismo presente o confinante  nel e col più generale fenomeno del “religioso” che lo ha portato a istituire, di fatto, una sua particolarissima concezione di “credoe civile” coinvolgendo discipline differenti come la storia delle religioni, l’antropologia culturale, l’etnologia, la biologia, la filosofia (storicismo), la sociologia (meridionalismo), la psicologia e la medicina (psichiatria), il tutto transitando anche per diverse ideologie politiche, spesso contrapposte tra loro ma che hanno lasciato sempre nel suo modus operandi un’impronta importante: dalla mistica fascista di Nicolò Giani al liberalismo crociano, dal giustizialismo sociale all’azionismo mazziniano, dal laburismo al socialismo fino ad approdare, in ultimo ad un comunismo critico molto altalenante che lo condusse dall’apprezzamento di Gramsci a quello di Stalin. De Martino sfortunatamente morì giovane proprio quando stava rielaborando il suo pensiero. L’ultima sua opera La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali rimasta incompiuta ma ora ripubblicata dalla Einaudi è incomparabilmente l’opera più filosofica di tutte le altre, quella più profondamente tragica da cui emerge in tutta la sua portata il dilemma irrisolto dell’uomo con la sua storia; potremmo definirla a giusta ragione l’opera più “completa” nella sua incompletezza, molto più di quanto sia stata La terra del Rimorso con la sua spicciola analisi psicologico-sociale, con la quale esaminò il fenomeno coreutico del Tarantismo. Diciamolo francamente La Terra del Rimorso è la peggiore opera, qualitativamente parlando, di Ernesto De Martino, perché superficiale, perché costruita in fretta, pretestuosa, settaria e dogmatica, ma soprattutto poco obiettiva perché fortemente influenzata dal pensiero gramsciano. La Terra del rimorso, sulla scia di altre opere come Morte e pianto rituale nel mondo antico, che gli valse il Premio letterario Viareggio-Repaci nel 1958 e Sud e Magia, piacque subito e, purtroppo, continua ancora a piacere a un pubblico acritico, ma ancora fortemente ideologizzato che, ironia della sorte, si autodefinisce demartiniano pur non conoscendo affatto, nel profondo, né il pensiero né le vicissitudini personali di Ernesto De Martino.

E ai demartiniani cosa rimprovera?

A loro rimprovero molto invece. In primis l’aver lucrato su un uomo e la sua indagine per mera sete di guadagno d’immagine. Per alcuni di loro, soprattutto se salentini, il tornaconto economico è stato notevole, ma ciò che è stato ancor più deplorevole da un punto di vista scientifico è stato il voler continuare a sguazzare nello stesso pantano, a voler ruminare ancora bolo culturale già ampiamente digerito. De Martino, per la loro idea di etnologia progressiva è stato una specie di “Che Guevara de noartri”, da sventolare a convenienza. Lo hanno trasformato in un fenomeno folklorico, in un “fenomeno da baraccone”. Strano a dirsi, hanno dimostrato di avere più rispetto per De Martino i tarantologi “eretici”, me compreso, con le loro nuove proposte d’indagine che i cosiddetti demartiniani “puristi” con la loro parrocchia dogmatica e conservativa. Gli unici “demartiniani” che stimo profondamente sono: Placido Cherchi, Clara Gallini, Annabella Rossi, Marcello Massenzio, Valerio Salvatore Severino, Sergio Fabio Berardini, Giordana Charuty ed Enzo Vinicio Alliegro per il loro grande spessore filosofico e culturale.

Come considera il fenomeno attuale del “neotarantismo”? 

È un fenomeno sociale che andrebbe esaminato a fondo. Credo sia il frutto di una contaminazione derivata dalla globalizzazione e da alcune interpretazioni dogmatiche del Tarantismo. Lo considero una parodia molto colorata e suggestiva, che testimonia quanto il folklore si possa evolvere.

A suo avviso la “Taranta” è morta?          

No non è morta, anzi è più viva che mai. È andata in promozione ma già da un po’ di anni a questa parte. Da culto extra liturgico si è trasformato in culto liturgico a tutti gli effetti. Già la venerazione di un’altra ipostasi di Asclepio, san Donato a Montesano Salentino lo ha dimostrato nel 1965. Ora la “Taranta” ha ripercorso al contrario le antiche rotte culturali ed è sbarcata nella Locride divenendo un fenomeno liturgico legato alla credulità popolare. Nulla storicamente parlando può considerarsi come un fenomeno a sé stante. Ogni atto umano e sociale nasce da qualcosa di molto similare che lo ha preceduto nel tempo. Sta a noi coglierne gli aspetti più nascosti.

Arrivederci professore, la ringraziamo per la sua importante interpretazione.

 Maria Angela Amato (ricercatrice e saggista pugliese)

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