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Luoghi

di Rossella Cerniglia 

Forse, quando lo risognava, sapeva, già nel sogno, che quella faticosa strada, quel perdersi e ritrovarsi negli stessi luoghi, era già stato vissuto, o almeno già sognato. Un percorso così difficile che non era mai sicura di arrivare alla meta.

Erano sempre gli stessi strani luoghi: passava per un sentiero ampio, di notte, tra i boschi. Riconosceva il posto: era quello, c’era già stata altre volte, perciò era di lì che doveva passare. Lo percorreva tutto fino a che esso si restringeva, girava intorno a un pilastro come in una scala a chiocciola e riusciva su un’altra strada deserta dove giungeva la luce rada di lontani fanali.

  Era sempre notte: ora provava uno smarrimento profondo perché non riconosceva più i luoghi, l’angoscia le pesava nel cuore. Prendeva allora l’unica possibile via che andava per marciapiedi e ballatoi di povere case. I vicoli s’insinuavano all’interno di esse, divenivano stanze, gradini da scendere e da salire, cunicoli maleodoranti. Lei chiedeva di lasciarla passare e traversava stanze anguste, i reticoli di corridoi che tessevano le case.

Era sempre notte, buia notte, e l’ansia tumultuava nel cuore. Lei sapeva che doveva arrivare, che era necessario arrivare al più presto possibile, ma non era chiaro dove dovesse arrivare. Neppure il perché, di quell’ansia che la attanagliava, conosceva.

Scavalcava inferriate, sbucava fuori da anditi che puzzavano di tutta la loro miseria. Nelle case la gente la notava appena, la lasciava muoversi negli angusti spazi, tra i letti e gli armadi, lasciava che si districasse da sola tra quegli intestini brulicanti di vita laida e incresciosa. E lei andava avanti, sempre più stanca e sempre più animata dal bisogno di arrivare.

Poi, ancora smarriva la strada, ancora vagava nella notte con l’angoscia nel cuore, finché qualcuno non le dava indicazioni precise. Allora, finalmente, raggiungeva quell’altro punto del tragitto, che era, tuttavia, quello da cui era partita.

Lo conosceva assai bene, appunto per esservi stata tante volte, e ne era perciò rincuorata. Riprendeva ancora la strada che era ancora un lungo sfiancante cammino. Infatti, non appena pensava di essere ormai prossima alla meta, la strada s’allungava, faceva capricciosi giri, passando per luoghi della sua infanzia dove anche il tempo regrediva.

Arrivava infine a delle case perdute nell’estrema periferia della città. Era notte, era sempre notte. Silenzio. Vedeva chiaramente i caseggiati davanti a sé in uno spiazzo immane: lugubri casermoni disabitati.

Vi s’incamminava, ma dopo un po’, si trovava davanti allo stesso sentiero tra i boschi, recintato di filo spinato, lo stesso sentiero di terra battuta, rossa, che qualche volta, in altri sogni, portava al mare; a un improbabile mare che si apriva su un’improbabile scogliera notturna e livida.

L’aveva percorso così tante volte che non si poteva ingannare, era di lì che bisognava andare; e l’angustia di doverlo ancora tutto traversare con le gambe vacillanti di stanchezza e il petto ansante di paura veniva nuovamente tacitata dalla necessità di dovere raggiungere quel luogo, il luogo dove doveva andare.

Ma qual era il luogo? Perché così difficile, così faticoso da raggiungere? Era sempre un luogo dell’infanzia, un luogo dove aveva forse abitato. E lei ci arrivava, sempre di notte, dopo altra stanchezza, dopo altra strada. E arrivatavi, le cose erano come allora: una strada di periferia non ancora asfaltata, piena di fango e odore di stallatico.

Vi abitavano certi suoi parenti lì, ma per un motivo inspiegabile trovava disgustosa l’idea che tutto, pur nella decrepitezza, fosse uguale a prima, che tutto non avesse conosciuto altro divenire: perciò s’incamminava nuovamente, durando, per l’ennesima volta, l’estenuante fatica d’una strada lunghissima da percorrere a piedi.

Giungeva, infine, alla casa di suo padre, più triste di quanto non fosse nel ricordo. Anche qui ogni cosa era quella di prima, eppure incredibilmente vecchia e cadente; anche qui il disgusto la coglieva come dinanzi alle cose trapassate. Infatti, non  il tempo pareva pesare su di esse, ma la morte stessa: nel poco lume della notte, mostravano, in un metafisico abbandono, la loro turpe vecchiezza.

E ogni cosa era, a un tempo, a se stessa  uguale e diseguale.

Da “Il tessuto dell’anima”  – 2011

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