Principale Arte, Cultura & Società A mio padre, nel giorno della sua festa

A mio padre, nel giorno della sua festa

Oggi è la tua festa papà, e sono 52 anni che sei volato nel punto più alto del cielo. Che dirti? Non so se sono anch’io diventato padre, dei figli naturali persi per un pessimo divorzio, dal quale sono fuggito per amore, non volendo portare alle estreme conseguenze una sentenza del tribunale dei minori che condannava la madre per negligenza.

Ora nella nuova famiglia acquisita sono chiamato nonno e ciò per gli straordinari e amorevoli minori delle figlie della mia compagna. Quindi non so se questa festa m’appartiene e, in attesa della festa dei nonni, parlo di te. Su facebook avevo creato tempo fa un album: “la guerra di mio padre”. Immagini piccole in bianco e nero, come si facevano negli anni ’40 del secolo scorso, frammenti di vita da incollare sugli album di famiglia. Sono immagini di navi e militari dove tu eri il capocannoniere Salvatore De Giorgi.

Ma c’è una immagine tua che mi rimane in mente, di quando dormivo da bambino nel lettone e tu mi avvolgevi tra le braccia cantando la ninna per addormentarmi. Poi la mattina abbandonavi il letto. Dall’altro lato della casa la mamma era già al lavoro e si spargeva tutt’intorno l’odore forte di caffè. Appena uscita dal macinino la polvere di caffeina sapeva di fresco, colpiva le narici di effluvi, come quelle del bar.

La vita in quegli anni era scandita da piccoli gesti quotidiani, senza affettazioni e l’assenza di ogni elettrodomestico, conquiste di anni successivi, faceva sì che regnasse, a ogni ora del giorno, il silenzio; si parlava di più tra le persone e i bambini si raccontavano i loro sogni e imbrigliavano le loro fantasie in giochi collettivi senza gesti particolarmente aggressivi. 

Non lo ricordi perché eri già in caserma ma, a giorno fatto mio fratello Antonio si gettava sempre sul lettone, dicendomi di guardare accanto all’armadio, dove s’apriva una porta immaginaria che proiettava un mondo pieno di favole a colori. Avevo sempre creduto a quella porta immaginaria, lì ad oriente e quella scena gremì miei sogni anche da adulto.

L’altra immagine che è rimasta nella mente è la casa di Via Trieste a Taranto. E se rovisto tra i ricordi della primissima età rivedo, dal balcone interno, l’immagine della grande strada che avrebbe caratterizzato la mia vita intera. Quel viale maestoso con numerosi platani e aceri che si collegava alla Magna Grecia. Non si vedevano palazzi, solo tanta campagna e, in lontananza, le poderose mura rossicce dello stadio comunale intestato al Mazzola del Grande Torino.  

Una cosa però mi commuove ancora oggi: un gigantesco platano, dì trenta o quaranta metri, troneggiava all’inizio del Viale. Quell’albero che avevo visto fin da bambino, mi è sempre apparso come un gigante buono, rappresentava un po’ il simbolo della mia infanzia. Quando, molto più tardi, fu abbattuto per costruire un sottovia, fu come se avessero sradicato dal mio cuore le radici con la mia casa natale. 

L’altro balcone invece è su Via Trieste. Ripenso a quanto peso ebbero, su di me, le tue assenze per gli imbarchi dei militari, che i tarantini conoscono bene.  Quante volte attesi un padre che non tornava, come nella poesia pascoliana. Tu non lo sai, ma quasi per stabilire un contatto con te facevo una cosa davvero strana: passavo molto tempo sul balcone, a fare coriandoli con pezzi di carta e di giornali, e li buttavo giù come se fossero minuscoli messaggi affidati al vento e guardavo sempre per vedere se, talvolta, tra i frammenti di quei piccoli pensieri volanti, dall’angolo di Via Trieste svoltasse la tua divisa. 

Mi sembra di rivivere quel giorno in cui finalmente tornasti, dopo alcuni mesi, che per un bambino sono un tempo indefinito, e di come saltando di gioia, scivolassi lungo le scale per essere il primo a salutarti. Tu eri, ingrassato più del solito, salivi le scale con fatica e non mi riconoscesti. La mamma m’aveva rasato a zero, come si faceva solitamente ai bambini per paura dei pidocchi. Fu solo un attimo, ma il senso di smarrimento che mi colse allora l’avrei rammentato per tutta la vita. Forse è davvero questa la primissima infanzia, la famiglia, il padre, la madre e tutti gli altri connessi. Cosa raccontare di quegli anni se non gli odori e i colori di una città che talvolta c’era, talvolta appariva. Ecco papà, ho voluto ricordarti cosi. Con questi frammenti di vita vissuta.

  Vivevamo in una strada che era allora periferia, di quella città cresciuta in fretta. Ora la mia casa natale è inglobata coi suoi tre piani, in un poderoso quartiere cresciutole addosso e intorno; solo quando si è ingoiati nel sottovia finale di Viale Magna Grecia si può intravedere, ma è un lampo, un flash e poi nulla.

Roberto De Giorgi 

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