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Copyright, la sindrome di Stoccolma

Da Vincenzo Vita riceviamo questa riflessione (già apparsa su il manifesto di ieri) e volentieri pubblichiamo 

di Vincenzo Vita 

Un paio di anni fa, attorno al varo della direttiva europea n.790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, vi furono vere e proprie baruffe, degne di un film di Tarantino con largo spargimento di pomodoro, quanto a durezza efferata esibita con dispendio di energie. Insulti, minacce, urla. Ora, praticamente concluso l’iter parlamentare del recepimento nel completo disinteresse, sembra tornata l’aria serena dell’ovest. Da Tarantino a Frank Capra.

    La posta in gioco, però, era e rimane notevole, riguardando uno dei tratti salienti del capitalismo delle piattaforme. Non è un mero gioco a due – produttori di contenuti e reti di diffusione-, bensì un elemento cruciale per definire i rapporti di forza di oggi e soprattutto di domani. Si tratta, infatti, di risalire alle fonti del (terribile) diritto di proprietà.

    Gli Over The Top (da Amazon, a Google, a Facebook, a Microsoft, a Twitter) sono i legittimi intestatari di ciò che diffondono ovvero ne sono semplici veicolatori? Non si può uscire dalla contraddizione con un puro esercizio mediatorio. La questione ha una valenza generale. Aut aut, non et et.

    Per un verso, l’articolo 20 del Regolamento di Bruxelles sulla privacy sembra optare per la potestà assegnata ai singoli utenti-navigatori di intestarsi le proprie attività. E ciò vale a maggior ragione per l’editoria e la produzione culturale.

    La citata direttiva intervenne a difendere i principi del diritto d’autore, ritenendoli validi pure nella gassosa età digitale.

    Lo scontro fu feroce proprio sul punto, perché non si poneva nel testo solo la giusta questione dell’appartenenza dei dati alle persone – singole o collettive che siano-, bensì un confine rigido tra lecito e illecito. Tra legge e pirateria. Giusto, ma si chiudeva in un involucro analogico il flusso digitale che rompe i canoni classici: spazio, tempo, finitezza dei testi.

    Tuttavia, ormai così è, e così sarà almeno fino a quando avranno in mano il pallino della decisione i nativi digitali, a Bruxelles, a Roma e nelle altre capitali. Fino a che passerà finalmente l’idea che il capitalismo delle piattaforme evoca altre figure contrattuali e negoziati permanenti sulla trasparenza dei software e degli algoritmi.

    Colpisce il silenzio prolungato del cosiddetto popolo della rete, forse travolto dalla prepotenza degli oligarchi del Web e, probabilmente, dalla fragilità di una prospettiva alternativa. C’è materia, insomma, per una augurabile sinistra della stagione digitale, capace di immergersi compiutamente in simile inferno tecnologico.

    E proprio per questo appaiono un po’ risibili i peana verso gli accordi stipulati da Facebook con qualche governo o da Google con il gruppo di Rupert Murdoch, o da Microsoft. I signori della rete hanno subito dichiarato che loro spetterà la facoltà di decidere quali notizie possono comparire sui social e quali no, quali remunerare e quali no. Di mettere in chiaro i propri sistemi di aggregazione dei dati non se ne parla. Anzi. Pare emergere un compromesso al ribasso tra parziale riconoscimento dei crediti da esigere, e comando riconosciuto ai nuovi padroni dell’iCloud. Nel comparto dei giornali, vi sarebbe un introito di soli 18 milioni di euro all’anno, secondo stime fatte dagli organismi di categoria.

    Nel testo della legge di delegazione, che contiene e orienta il recepimento delle direttive, qualche punto fermo c’è. Nell’articolo 9 si scrivono indirizzi volti ad un maggiore equilibrio, ma i rapporti di forza sono sfavorevoli. Fintanto che una regolazione compiuta non entrerà in scena, riaprendo il tema delicatissimo della proprietà. Se si rompesse l’opportunistica acquiescenza alla conquista selvaggia (illecita?) dei Big data da parte delle Tech, il mostro si potrebbe sgonfiare. Del resto, il capitalismo sa diventare anche il becchino di se stesso, se all’orizzonte si appalesano soggetti organizzati consapevoli dei propri diritti, e se le istituzioni democratiche non si arrendono e raccolgono dal fango le bandiere che loro stesse hanno gettato.

    Alle direttive seguono, affinché possano divenire concrete, numerosi decreti legislativi attuativi. La dialettica e il conflitto si spostano lì. Basta che ci si svegli dal lungo sonno.

           

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