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Vecchi mestieri e Grande reset

Da qualche tempo gira in rete la barzelletta dei cannibali – o forse dovrei dire degli omofagi per partecipare ai riti del neo vocabolario globalista – che è meglio di un saggio di sociologia.  Quattro cannibali vengono assunti come impiegati in una multinazionale
Durante la presentazione il Presidente dice: “Adesso siete parte del gruppo. Qui si guadagna bene e se avete fame potete andare alla mensa aziendale. Quindi non date noia agli altri impiegati”.
I cannibali promettono di non disturbare gli altri. Quattro settimane dopo il Presidente torna e dice:
State tutti lavorando bene e sono molto soddisfatto di voi. Però da ieri sembra scomparsa una delle ragazze delle pulizie e gli uffici sono tutti sporchi. Qualcuno di voi sa cosa è successo ?
I cannibali dichiarano di non sapere niente della ragazza. Dopo che il Presidente è uscito, il capo dei cannibali dice agli altri: Chi di voi idioti ha mangiato la ragazza ? Uno alza esitante la mano ed il capo dei cannibali dice: “Imbecille! Per quattro settimane abbiamo mangiato Responsabili Marketing, Capi Area, Dirigenti, Area Manager e Product Manager, in modo che nessuno si accorgesse di niente e tu dovevi mangiarti proprio la ragazza delle pulizie?”

Da quanti anni mentre il lavoro vero andava verso oriente, il mondo occidentale si è riempito di lavoro inutile, di cariche di facciata, di titoli  che solo l’inglese riesce a non rendere immediatamente ridicoli, di pubbliche amministrazioni dove il massimo dell’attività è in gran parte  fittizia, di aziende che  producono solo immagine di sé e sono sempre più inserite nel circuito e nel gioco finanziario, mentre è altrove che si produce, che si fa, che si costruisce? Molte attività lasciano un senso di frustrazione e di alienazione per il non senso che producono e la palese inutilità sociale visto tra l’altro che che sempre più tempo viene dedicato alla comunicazione, alle riunioni agli obblighi amministrativo – burocratici, a tutto ciò che insomma può riempire il nulla. Già otto anni fa il fenomeno veniva descritto dall’antropologo  David Graeber in un libro in cui appunto di occupava dei “lavori del cavolo” nel quale puntava il dito contro una deformazione tipica del capitalismo finanziario che permette a milioni di persone – di svolgere un lavoro inutile senza impedire loro di esserne tragicamente consapevoli. Lavori talmente superflui che possono tranquillamente essere usati dai disoccupati per creare una sorta di trompe l’oeil: pensate solo a quanti “consulenti”, manager dell’accoglienza, gente che si occupa di… o imprenditori senza impresa  avente incontrato, tutte persone che il sistema neoliberista spinge ad auto colpevolizzarsi e quindi a nascondersi nei cespugli insidiosi della neo lingua. In realtà i lavori davvero necessari sono spesso quelli umili, spesso malpagati e comunque privi di prestigio. Ed ecco da cosa nasce la barzelletta: fa ridere perché sembra dire un assurdità, ma  invece non fa che svelare la mera realtà.

Sono cose che molti di noi conoscono, ma leggendo la barzelletta mi è venuta in mente tutta la schiera di lavori autonomi che oggi sono in fortissimo pericolo a causa di una pandemia il cui scopo è uccidere quei ceti che fanno resistenza al globalismo e alle oligarchie. In un certo senso esse hanno partecipato al gioco della nullificazione e ora ne pagano le conseguenze. Quando ero giovane esistevano pizzaioli, ristoratori, baristi, meccanici, carrozzieri, albergatori, muratori, fruttivendoli, edicolanti elettricisti, imbianchini, idraulici, macellai, gelatai, merciaie, falegnami, ferramentisti, e insomma una infinità serie di attività utili a ciascuno e all’insieme della società. Poi con l’avvento di Berlusconi tutti pensarono di essere usciti da questa condizione sociale modesta, ancorché spesso tutt’altro che povera, diventando orgogliosamente “imprenditori” come se la cosa costituisse di per sé una scalata sociale, come fosse una medaglia; e ancora oggi molti di questi soggetti si definiscono così con una parola che ha ormai perso del tutto il significato che aveva nel dopoguerra, ma che mantiene intatto un concetto: i vari mestieri sono utili alle persone e richiedono competenze specifiche, mentre l’imprenditore è tale perché non deve possedere alcuna competenza se non quella di badare primariamente al proprio interesse e ad essere utile a se stesso.  Il passaggio dai nomi dei mestieri a quello indefinito dell’imprenditoria non è solo nominalistico, ma di sostanza: l’allontanarsi dalle radici, dalle cose fatte bene e con cura che danno soddisfazione, per evidenziare solo la parte contabile, il giro di denaro, ossia la parte finanziaria. Sono stati gli stessi interessati a partecipare in maniera entusiastica alla mutazione che oggi li sta distruggendo.

Il risultato di questa mutazione di cose è che adesso molti di questi soggetti non saranno più imprenditori, né lavoratori con la dignità del loro sapere, ma solo fattorini al servizio della crescente robotizzazione. L’Osservatorio libere professioni di Confprofessioni ha presentato un rapporto secondo il quale 30 mila professionisti e 170 mila autonomi hanno dovuto abbandonare le loro attività già dopo le segregazioni di primavera e la strage continua imperterrita, mentre ci rimbambiscono di narrazioni pandemiche gestite da un connubio tra competenti mentitori e  incompetenti totali.

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