Principale Estero Pastorale americana

Pastorale americana

Nell’ultimo comizio elettorale  aveva detto: “gli uomini e le donne dimenticati d’America, non saranno più a lungo dimenticati”.

E difatti lo votarono, come si vide dalle mappe prontamente prodotte dalle grandi testate che parlarono di Two America, la sua, Trump’s America,  tre milioni di miglia quadrate poco urbanizzate con circa il 46% della popolazione totale degli Usa, e la Clinton’s America, appena il 15% del territorio ma densamente abitato, due “paesi” e in un certo senso due popoli estranei e con tutta probabilità ostili.

Nel primo una realtà rurale, le farms sperse, i villaggi semiabbandonati, marginali e scuciti dal tessuto delle capitali,  le periferie laterali, trascurate e riottose, nell’altro, quello della vittoria della Clinton, le metropoli, i cuori finanziari e economici, le contee urbane dove la candidata ebbe il sopravvento, inutilmente, con un distacco di circa 72 punti percentuali.

Nel primo gli invisibili, i senzaparola, gli “ignoranti” isolati e disprezzati da un ceto che rivendica una superiorità sociale e culturale e dunque morale, quello che vediamo nelle serie di Netflix, nella Manhattan di Allen, tra le case ovattate di ipocrisia della Filadelfia di Demme, che viaggia in limousine con autista o in quei treni dove i passeggeri concentrati sugli smartphone non volgono lo sguardo ai capannoni scoperchiati delle fabbriche dismesse, alle case diroccate coi vetri rotti e le porte spalancate sui tinelli  e  sulla tavola del ringraziamento di Norman Rockwell, allo sfacelo della deindustrializzazione sostituita dai fasti nefasti di Wall Street, delle bolle, dei fondi.

E’ anche quella l’America dove le lacrime dei disoccupati sono ancora sporche del carbone delle miniere e i rabbiosi diseredati ( quelli che vengono chiamati hillbilly,  i bifolchi, bianchi ma poveri come i neri, che non sanno parlare tanto che si esprimono con i pugni e magari con la pistola, taciturni anche quando fanno il pieno di bourbon) si sono presi il gusto, come ebbe a scrivere qualcuno, di “impiccare l’ultimo Clinton con gli intestini dell’ultimo Bush“, per vendicarsi del fatto  che la loro vita negli ultimi decenni è peggiorata trasformando il sogno americano da “dopo Reagan” in un incubo.

Posso rivendicare di aver definito la scelta tra Trump e Clinton prima e tra Trump e Biden poi come l’alternativa se è meglio morire di ictus o di cancro. E non sorprende come l’opinione pubblica italiana che sorvola su affinità palesi, che professa un antifascismo che si riduce a militare in rete contro Salvini e appunto l’ex presidente formalmente promosso a golpista ridicolo come Tejero, si sia schierata prontamente con l’ictus o col cancro che tanto c’è poca differenza nell’epilogo, soddisfatta di questa allegorica messa in scena di quell’osceno babau che è il populismo, che fa schifo tanto da persuadere menti illuminate sull’opportunità di prevenire eventuali brogli con una occhiuta selezione degli elettori per censo e istruzione.

Che soddisfazione interpretare quello che succede nell’ex capitale dell’Impero del Male, in modo da sentirsi a posto se non si va più in piazza a gridare Nixon boia, a manifestare contro la Nato, perché si è maturata la consapevolezza che è meglio non andare troppo per il sottile, che bisogna tutelare la civiltà occidentale minacciata navigando a vista in un contesto geografico e politico che ha dimostrato mille volte di essere incompatibile con una “democrazia” che evangelizza presso popoli primitivi grazie alle sue campagne di “rafforzamento istituzionale” e di aiuto umanitario, unanimemente condivise dagli alleati, ma pure dal sentiment  pubblico che ha archiviato Berkeley, Hoffman che  aveva ragione, le cartoline precetto date alle fiamme.

E che sollievo stare seduti dalla parte giusta mentre scorrono sullo schermo del pc le macchiette degli insorti, copia scolorita dei padani con l’elmo e le corna, del trucido tycoon irriducibile che ad onta degli anni, delle sconfitte, degli scandali non si schioda manco fosse ad Arcore,  appagati dal sostegno morale tolto a Sanders troppo visionario, irrealista, e dato a Biden e non solo per l’aureo imperativo di votare contro, ma perché davvero rappresenta l’acme dell’ipocrisia, da far rimpiangere i democristiani essendo invece un veterano della repressione e inveterato nostalgico dell’imperialismo più muscolare  e tracotante oltre che evidentemente bollito, sicché la stampa concorde, tutta, guarda a lui, che presentando al sua squadra proclama: “l’America è tornata, pronta a guidare il mondo”,  a  Keir Starmer, come a Calenda, Zingaretti, Conte oltre che al solito immarcescibile bullo, perfino a Sassoli che vota per l’equiparazione di fascismo e comunismo, in qualità di riferimenti del campo “occidentale” democratico.

È che siamo lontani dalla rivoluzione quanto siamo lontani dal riformismo strutturale e ormai anche, c’è da temere, dalla democrazia che doveva dargli corso, dalla Corazzata Potemkin e da Bad Godesberg, così c’è chi si sente deluso dalle prestazioni della “sinistra” al governo, un abuso linguistico usato ormai solo da Berlusconi e da qualche lettore del Manifesto e del Foglio a pari merito, riferito ai praticanti dell’atto di fede nell’Europa “riformabile”, irrinunciabile, giusta e perfino generosa.

Sono quelli che hanno tolto un po’ di polvere al Tocqueville tirato giù dallo scaffale, che, lo ricordo, scrisse i suoi due tomi il primo nel 1835, il secondo nel 1840, dopo aver soggiornato nel grande paese meno di nove mesi per raccogliere informazioni sul sistema carcerario locale.

Sono quelli che rifiutano lo status di “colonizzati anche nell’inconscio”, pur sapendo che nel frattempo vige in alcuni Stati la pena di morte, che se è stata chiusa Alcatraz, Guantanamo vive, che da anni, e da  mesi ancora di più, è il posto dove le disuguaglianze sono profonde e feroci fino all’inimmaginabile, dove i senza tetto effetto collaterale delle bolle immobiliari  si stendono in lunghe file nelle piazze delle metropoli, le bidonville sfiorano i margini della Casa Bianca, dove si viene  scaraventati fuori dal pronto soccorso perché non c’è copertura assicurativa, dove i neri sparati a Chicago muoiono allo stesso modo dei poveracci bianchi di altre latitudini, dove è il big business che aizza o riduce a miti consigli leader e insorti, preoccupato che i tempi e i modi della transizione lo “destabilizzi”, perché in tutti gli imperi, i regni e perfino nelle province remote bisogna garantire la sua governabilità anche e soprattutto quando si fonda su uno stato di eccezione che deve diventare solido e permanente.

Continuano imperterriti a chiamarla democrazia, baluardo contro populismo e sovranismo, tanto che ci è toccato leggere le esternazioni di gente che rivendica un’appartenenza sia pure disincantata e delusa, che gioiva per il cancro o l’ictus che poi è lo stesso e poi insorgeva alle prime maldestre denunce di brogli, al fianco dell’american people che aveva liberamente votato, come se la miseria, leggi elettorali macchinose e lesive dei diritti di espressione e della volontà popolare, insieme a sfiducia, frustrazione, emarginazione fossero gli ingredienti della partecipazione, là come qui ai margini del declino della potenza imperiale.

E non stupisce i candidati “progressisti” neoliberisti del Pd come dei “Coraggiosi” della Schlein o dei transfughi del clan di Rignano, tutta gente contenta di diventare un prodotto politico in  vendita, si facciano attrezzare per le loro tenzoni elettorali da Social Change la creatura di Arun Chaudhary, regista americano ex filmmaker di Obama, che li “forma” e sostiene anche economicamente le loro campagne.

E difatti nella nostra storia non si ricordano sanzioni contro la Cola Cola, contro i big burgher, che si accanirebbero contro i pronipoti dei padri pellegrini, notoriamente dinamica scrematura pionieristica di malfattori, evasi da galere europee, ladri e assassini, la cui pretesa di innocenza cerca di rimuovere l’indice assassino che preme il tasto del drone che bombarda paesi lontani, le prodezze di un esercito mercenario al servizio di tiranni sanguinari,  il consenso a un imperialismo che agisce anche in patria consolidando le tremende differenze dell’american way of life, che si arma e arma le mani dei propri adolescenti persuasi di difendere i sacri confini della patria, della civiltà e del proprio ego fanciullesco.

Perché è proprio vero come scrisse  Susan Sontag, che dubito avrebbe sostenuto Hillary o Biden sia pure contro the Orange Funny Man, che “gli Usa avevano diffuso nel mondo la peste” e  che il mondo si sarebbe ammalato e forse morto con loro. E a ben vedere da dove sono scaturite le grandi crisi, ma anche il terribile contagio della liberalizzazione e circolazione di capitali che ha dato forza maligna al totalitarismo finanziario, pare proprio che sia così.

È che l’indulgenza riservata a quel popolo “nuovo”  bamboccione e rozzo deve essere dello stesso tipo di quella che riserviamo a noi stessi che ci stiamo impegnando per diventare come loro, dopo esserci disfatti della memoria  della dignità che abbiamo riscattato e che, malgrado i premi Oscar e la manomissione della storia, non ci è stata regalata dagli eroici “liberatori”.

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