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Tutti abbiamo un amico “lapardeo”: l’arte di scroccare e una storia lunga ben 300 anni

Questa portentosa ed elegante parola che richiama il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è invece tutto il contrario di quello che sembra. Ecco da dove nasce questo termine

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia

Alzi la mano chi non ha un parente o un amico lapardeo. Forse, addirittura, siete proprio voi i lapardei. No, non ditemi che da buoni siciliani non avete mai sentito o usato il termine “lapardeo”.

Questa portentosa ed elegante parola che per sound richiama il capolavoro di Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), al punto tale che senza saperne il significato ci verrebbe quasi da gridare a petto in fuori “Noi fummo i Lapardei”, invece, è tutto il contrario di quello che sembra.

I fatti si svolgono quasi sempre seguendo lo stesso copione. È mattina e ti svegli con un pirtuso (buco) allo stomaco che il buco dell’ozono al confronto pare il buco della serratura. Certo, che pretendi? Hai passato tutta la sera prima a guardare Masterchef, chef Rubio, 4 ristoranti, per disperazione pure le repliche di Antonella Clerici, e dentro il frigo hai solo un pacco di dadi Star e la fettina di fegato della sera prima che pare fegato ma invece è un sofficino che hai fritto un poco troppo assai.

Chiudi il frigo, lo riapri, e ci trovi dentro Dante Alighieri che ti urla contro: “Esta selva selvaggia aspra e forte che nel pensier mi rinnova la paura!”: apposto, devi andare a fare la spesa. Tuta e scarpe da ginnastica e parti tipo Forest Gump direzione mercato del Capo con un’unica e sola intenzione: comprare da mangiare come se fosse la tua ultima cena.

Sarde a beccafico, broccoli a pastella, pane di Monreale, caciocavallo, sfincione, pomodori secchi, olive senza alcuna discriminazione razziale (bianche e nere tutte assieme), insalata di musso (perché l’insalata sgrassa) e un cannolicchio per levarsi il sapore.

Poi, proprio al punto più alto della soddisfazione personale, giusto mentre ti stai incamminando verso casa per mangiarti pure i piedi del tavolino, appare lui, il “lapardeo”. No, non ho usato “appare” a caso: il lapardeo non cammina, egli come i santi fa le apparizioni.

“Gianlù!” (questo è lui), “Ou” (rispondo io), “Ma cheffà, non mi riconosci?” (mi chiede tutto contento), “No, è che sei cambiato nell’ultima settimana…”. “Dammi qua” (mi dice subdolo) “che ti aiuto a portare la spesa a casa. Sei stato fortunato ad incontrarmi…”. “Minchia”, (esclamo sconfitto) “ho fatto sei al superenalotto!”.

Parlate di questo, parlate di quello, ricordate i vecchi tempi, sistemate la spesa e poi, come naturale che sia, siete costretti a fare la domanda di rito: “Ma visto che sei qua, ormai vuoi mangiare con me?” “No, per carità, ho già mangiato” (specifica subito) “a limite ti faccio compagnia e ti aspetto per il caffè”.

Morale della favola, se passava un’ondata di cavallette, una carestia, e un’altra piaga d’Egitto contemporaneamente facevano meno danno. “Altro che caffè” (pensate alla fine del pranzo), “ti sei fottuto Sansone cu tutti i capelli e pure i filistei”.

Ecco, per dirla in parole povere, il “lapardeo” altro non è che il parente o l’amico scroccone. Ma no scroccone così… scroccone scroccone! Ora, per capire da dove viene sta’ parola (lapardeo) saliamo sulla DeLorean di Emmet Brown (del film “Ritorno al Futuro”) e ce ne torniamo indietro di 300 anni precisi precisi. Siamo nel 1720 che fra l’altro è pure anno bisestile.

In Francia scoppia un’epidemia di peste devastante (belli sti anni che finiscono col 20), a Palermo nasce il nostro Giovanni Evangelista di Blasi e la Sardegna passa in mano a Vittorio Amedeo di Savoia mentre gli scappa la Sicilia che, per conquista, finisce invece a Carlo VI (e che ci deve fare il Risiko?).

“Lass uns nac Palermo gehen!” scatarra in tedesco il nuovo re, e dunque ordina ai suoi sottoposti di arricamparsi in Sicilia. Già che i siciliani pane con i tedeschi non ne hanno fatto mai, figuriamoci se a parlare questo dolcissimo idioma erano addirittura gli austriaci. Parte il primo, parte il secondo, tempo niente a Palermo sembrava fosse scoppiata un’epidemia di catarro e invece era che eravamo pieni pieni di soldati di Carlo VI (botta ri sale a lui!).

Tra questo magnifico esercito quelli più simpatici di tutti, vuol dire niente, erano gli Hallabardier (gli alabardieri in pratica). Ora, volete voi che i siciliani, famosi in tutto il mondo per la dimestichezza con le lingue straniere, se non addirittura coniatori di perle del tipo “talllone da killer” e “coviddi”, non dovessero metterci la propria creatività anche in questo? Certo che si!

Immediatamente la parola “Hallabardier” diventa lapardei. Dovete sapere che l’habitat naturale del lapardeo è l’osteria, o quantomeno tutti posti dove si trova da mangiare. Provate ad immaginare questi soldati che, abituati alla cucina austriaca, si trovano dentro un’osteria e pensano di poter ordinare i loro piatti cui nomi, per musicalità, potrebbero accompagnare in danza Roberto Bolle: Tomatencremesuppe!!! (zuppa di pomodoro), Grießnockerlsuppe!!! (gnocchetti di semolino in brodo), Kürbiscremesuppe!!! (crema di zucca).

Eh no, erano cascati male gli austriaci; anzi, forse troppo bene perché noi avevamo già i conventi che uscivano la meglio pasticceria, le tonnare con i meglio tonni e la cucina non poi troppo diversa da quella di oggi. Non solo questi consunti e lapardei si leccavano i baffi con le nostre prelibatezze, come se non bastasse, entravano in osteria (e in Sicilia ce n’erano assai!), si sbafavano tutte cose, e, quando si trattava di mettere mani al portafogli e pagare, con la scusa di essere “ubriachen”, acchiappavano e se ne andavano lasciando l’oste asciutto come un santo in una chiesa.

Da quel quindicennio circa di dominazione austriaca, ancora oggi, quando invitate qualcuno a casa che dice di avere già mangiato, oppure che è a dieta, e invece si fotte cose lui, quello, è un lapardeo!

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