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Un libro per far riscoprire ai ragazzi gli antichi valori di un tempo

di Stefania Romito

“Un paese vuol dire non essere mai soli”, affermava Cesare Pavese. Paese come focolare domestico che infonde calore, protezione, sicurezza, in grado di annullare il senso di solitudine. Quel focolare domestico, tanto caro a Mircea Eliade, al quale si desidera far sempre ritorno dopo aver attraversato il labirinto di Arianna, perché è soprattutto in una piccola realtà geo-sociale che si riscoprono con maggiore candore i nostri archetipi esistenziali.

È questo il senso del progetto editoriale che ha coinvolto alcuni studenti dell’Istituto Comprensivo “M. Caselle” di Rapolla, un piccolo borgo in provincia di Potenza. Un luogo in cui il tempo trascorre lentamente e, proprio in virtù di questo, è ancora possibile vivere le antiche tradizioni del passato. Un interessante progetto che ha visto la nascita del libro dal titolo “S’stacej meglj quann s’ stacej pegg?”, ossia “Si stava meglio quando si stava peggio?”, finanziato con i fondi dell’8 per mille dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi d’Italia. Il responsabile del progetto è Guerino Pianta (Biblioteca Orizzonti) mentre l’ideatrice è la prof.ssa Anita Di Tolve in collaborazione con Maria Grazia Rapone (Presidente dell’Associazione “Spazio Giovane”).

“Si stava meglio quando si stava peggio?” è l’importante quesito che emerge in questo libro nel cui titolo è già intrinseco il significato che assume l’importante ruolo della testimonianza antropologica.

Un libro scritto dai ragazzi per i ragazzi, ma che deve essere vissuto soprattutto dagli adulti, da coloro che hanno avuto l’inconsapevole fortuna di ricevere dalla fonte quello scrigno di conoscenze che costituisce un patrimonio prezioso di valori esistenziali. Quei principi genuini che si rinvengono più facilmente proprio in una piccola realtà di paese. Il viaggio di Biagio (il ragazzo protagonista del libro che all’improvviso si risveglia in una realtà completamente diversa) acquisisce straordinarietà proprio nell’ambito di questa visione. Un viaggio che catapulta il lettore in un lontano passato. Il passato diviene fondamentale perché si ricongiunge alla memoria che è la base fondante della nostra identità. L’humus in cui sono germogliate le nostre radici. La conoscenza del passato è imprescindibile al fine di una maggiore consapevolezza di noi stessi e della nostra funzione nel mondo. L’allegorico viaggio di Biagio, che non a caso si svolge in questo “tempo di coronavirus” in cui tutti i nostri punti di riferimento sembrano essere messi in discussione, può essere letto in chiave dantesca come il viaggio che conduce dal buio alla luce. Dall’oscurità causata da un periodo di grande difficoltà che soltanto nella luminosità della purezza di sentimenti riesce a trovare la sua illuminante rivelazione.

Il viaggio di Biagio ha, quindi, riportato alla luce quegli aspetti essenziali della nostra vita che purtroppo il trascorrere del tempo ha sbiadito se non irrimediabilmente annullato. Questo perché nelle nostre esistenze sono subentrate nuove priorità. Complice la modernità che con il suo progresso tecnologico ci ha consentito di condurre un’esistenza di certo più agevole, ma troppo spesso orfana di quei preziosi elementi che sarebbe stato, invece, necessario tutelare.

Un discorso antropologico che connota ogni parola di questo libro poiché fa comprendere come gli usi, i costumi, i riti, le superstizioni, costituiscano l’anima di una etnia, di una civiltà.

È proprio attraverso il rispetto della tradizione, o “delle tradizioni”, che possiamo cogliere l’essenza immanente di un popolo.  Un libro fondamentale che si fa portatore di un senso vitale che deve essere veicolato a tutti, non soltanto alle nuove generazioni, ma soprattutto alla generazione degli adulti, custode di quel retaggio culturale generato dai grandi valori del passato. Ed è proprio a questa generazione “di mezzo” che è affidato il compito di far riscoprire ai suoi figli quella autentica dimensione ricevuta in eredità, recuperando, attraverso il ricordo, il valore della memoria, custode dei nostri sentimenti più puri.

Un libro che si arricchisce anche di un alto valore simbolico in un nostos nostalgico che riporta a Itaca, l’isola dalla quale si parte e alla quale si ritorna dopo aver compiuto il viaggio nel labirinto dell’esistenza. Perché il ritorno è sempre il ricongiungimento alla partenza in un paradigma circolare che trova il suo senso nella conseguita compiutezza, ossia nella conclusione del ciclo vitale dell’uomo. Un significato che si ricollega al mito, custode elettivo dei nostri archetipi esistenziali. Mito al quale si accede proprio attraverso il simbolo. I riti, le usanze, i costumi costituiscono i simboli che trascendono il particolare per unirsi all’universale. Le tradizioni rappresentano anche questo. La continuità nel tempo di un valore immanente insito nella storia di una civiltà, ossia  l’immortalità dell’anima di un popolo.

Si parlerà di questo interessante progetto nel corso della prossima puntata del programma radiofonico “Ophelia’s friends on air”, all’interno della rubrica “La parola ai ragazzi”, in onda domenica 25 ottobre 2020, alle ore 13 (dopo il Notiziario), su Radio Punto.

Stefania Romito

s.romito@corrierepl.it

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