La questione uigura nella regione cinese dello Xinjiang è tornata a far parlare di sé dopo che lo scorso autunno Ilham Tohti, ex docente uiguro di economia internazionale in carcere dal 2014 con l’accusa di istigamento al separatismo, ha ricevuto il Premio Václav Havel per i diritti umani da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e il Premio Sacharov per la libertà di pensiero da parte del Parlamento Europeo. Un reportage di Associated Press ha infatti presentato alcuni dati di un report della Jamestown Foundation che mostrano gli effetti delle politiche di controllo sulle nascite nella regione, sollevando una serie di interrogativi in tutto il mondo.
Il report fa seguito ad anni di sensibilizzazione alla questione uigura da parte della società civile e della comunità accademica internazionale, mossa dalle testimonianze dirette (raccolte principalmente da Radio Free Asia) sull’istituzione dei cosiddetti “campi di rieducazione” nella regione. Perché monitorare la situazione in Xinjiang? Quali sono le politiche di Pechino? Perché la comunità internazionale è sempre più interessata alla “questione uigura”?
Una precisazione…
Lo Xinjiang è una regione autonoma della Cina nordoccidentale tra le più grandi della Cina: si trova tra Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India, la regione autonoma del Tibet e le province del Qinghai e del Gansu. Lo status di regione autonoma le garantisce un proprio governo locale e una maggiore autonomia legislativa rispetto alle province cinesi. Lo Xinjiang, ceduto dal Guomindang alle forze comuniste durante la guerra civile del 1949, ha acquisito lo status di regione autonoma nel 1955 per la presenza sul territorio della minoranza uigura, uno dei cinquantasei gruppi etnici riconosciuti dal Partito Comunista Cinese (PCC). Lo status ufficiale del gruppo è quello di “minoranza regionale all’interno di uno stato multiculturale” e pertanto non rientra nella definizione di “gruppi indigeni” delle Nazioni Unite. I tratti antropometrici simili a quelli delle popolazioni dell’Asia Centrale con le quali condivide anche le tradizioni culturali, la confessione religiosa (Islam sunnita) e la lingua turcofona fanno del gruppo uiguro una delle minoranze etniche cinesi maggiormente distinta dall’etnia maggioritaria del paese, quella Han.
Dove nasce la “questione uigura”?
La fase attuale della “questione uigura” comincia con il crollo dell’Unione Sovietica e l’istituzione delle repubbliche indipendenti di Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan lungo i confini della regione. La nascita di stati indipendenti in Asia Centrale, infatti, contribuì a riaccendere i sentimenti secessionisti della minoranza. L’allora presidente cinese Jiang Zemin si affrettò a normalizzare i rapporti con gli stati emersi dallo spazio post-sovietico, ma i confini particolarmente porosi dello Xinjiang agevolarono gli scambi con altri esponenti del gruppo etnico uiguro localizzati sul territorio di stati come Kazakistan e Kirghizistan. Furono questi scambi a far sì che fosse riscoperto un ideale “panturco” e a fomentare un nuovo ciclo di moti separatisti nella regione.
La mancanza di esperienza del PCC nel contrastare il separatismo portò a sua volta ad una recrudescenza dei livelli di contestazione politica dei gruppi anti-statali che, dopo gli attentati di New York dell’11 settembre 2001, le autorità di Pechino fecero rientrare nella cornice della “guerra globale al terrorismo”, divenendo ufficialmente “terroristi” per il governo centrale. Una definizione corroborata anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) che inserì il gruppo che più di ogni altro era stato identificato dal PCC come artefice delle contestazioni violente – il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) – nella lista dei gruppi terroristici riconosciuti a livello internazionale.
Il concetto di terrorismo in Cina ha una portata particolarmente ampia. Racchiude, infatti, il terrorismo tout court, il separatismo e l’estremismo religioso in un’unica cornice, quella dei “tre mali” dei quali, in particolare, viene accusata la minoranza uigura in Xinjiang. Questa concettualizzazione del terrorismo proviene da un circuito di coordinamento regionale che, a partire dal 1996, ha visto Russia e Cina a capo di un forum internazionale di sicurezza – lo Shanghai Five – che comprendeva le nuove repubbliche centro-asiatiche (esclusi l’Uzbekistan e il Turkmenistan). Con l’istituzionalizzazione dello Shanghai Five nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel 2001 e l’ingresso dell’Uzbekistan nell’organizzazione, la questione uigura è diventata una delle priorità della cooperazione in Asia Centrale, grazie anche al lancio della Struttura Regionale per l’Antiterrorismo (RATS) che fa capo alla SCO. La RATS è infatti un’agenzia volta allo scambio di informazioni su gruppi terroristici transnazionali e alla pianificazione di operazioni congiunte di antiterrorismo.
Cosa è cambiato con la Nuova via della seta?
Il lancio della Belt & Road Initiative (BRI) – detta anche Nuova via della seta – ha ulteriormente aggravato il livello di complessità delle questioni di sicurezza in Xinjiang. La regione è infatti attraversata da tre dei cinque corridoi economici che caratterizzano la componente infrastrutturale dell’ambizioso progetto cinese. In questo modo, il potenziale strategico dello Xinjiang nell’ambito della strategia complessiva di Pechino ne è risultato accresciuto.
Il primo corridoio economico, il New Eurasian Land Bridge (NELBEC), connette le regioni costiere della Cina orientale ai mercati dell’Europa settentrionale, valicando le frontiere nazionali proprio tra lo Xinjiang e la zona economica speciale di Khorghos in Kazakistan. Il secondo corridoio, il Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale (CCAWAEC), parte dalla capitale regionale dello Xinjiang, la città di Urumqi, e attraversa il Medio Oriente fino a raggiungere il porto del Pireo in Grecia. Il terzo e ultimo corridoio, il Cina-Pakistan Economic Corridor (CPEC), uno dei progetti di punta di Pechino, connette la città di Kashgar nello Xinjiang meridionale al Mar Arabico, offrendo un accesso diretto alle rotte marittime per i porti di Kenya, Sri Lanka ed Europa. Lo Xinjiang è quindi un passaggio obbligato nei progetti della Nuova via della seta. La stabilità interna di questa regione si è ora trasformata in una priorità chiave anche per la politica estera di Pechino oltre che per quella di sicurezza.
Come sono cambiate le politiche di Pechino nello Xinjiang?
A partire dal 2017, alcune testimonianze della minoranza etnica kazaka che risiede nello Xinjiang riguardo all’esistenza di “campi di internamento” volti alla “rieducazione” di membri delle minoranze islamiche nella regione (non solo uigura, ma anche kazaka e kirghisa) hanno fortemente colpito la comunità internazionale. Questi campi però non sono che l’ultima applicazione di una serie di politiche volte fin dalla seconda metà degli anni Novanta alla realizzazione dell’obiettivo dichiarato di Pechino di riportare “stabilità e sicurezza” nello Xinjiang.
Il presidente Jiang Zemin, tra il 1996 e il 2001, aveva attuato una versione moderna delle campagne strike hard di epoca maoista, che facevano perno su una forte presenza militare nella regione. Il suo successore, Hu Jintao, tra il 2002 e il 2012, aveva affiancato a queste campagne politiche di sviluppo economico, incardinate nell’idea che un livello elevato di sviluppo avrebbe portato ad una più immediata stabilizzazione dello Xinjiang. Anche Xi Jinping, dal 2013, ha utilizzato campagne che si rifanno al framework dello strike hard alle quali, tuttavia, negli ultimi anni, sembra aver aggiunto un’altra strategia di sicurezza dell’epoca maoista, quella della “rieducazione attraverso il lavoro”.
La struttura della “rieducazione attraverso il lavoro” prevedeva la detenzione (anche extragiudiziaria) per coloro che avevano commesso reati minori o che erano stati identificati come dissidenti politici. Attualmente, le attività svolte dai detenuti in questi campi sembrano concentrarsi sullo studio della propaganda comunista e la ripetizione di slogan in supporto del presidente Xi. Ad oggi, la principale fonte di informazioni sui campi rimangono le testimonianze dei cittadini kazaki residenti nello Xinjiang che, a seguito di incontri diplomatici tra esponenti dei ministeri degli esteri kazako e cinese nell’aprile 2018, sono stati rimpatriati in Kazakistan.
Quali reazioni dalla comunità internazionale?
Nel luglio 2019 gli ambasciatori di 22 nazioni, tra cui Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito (l’Italia no), hanno inviato una lettera al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC) che condannava il trattamento delle minoranze etniche nello Xinjiang da parte del PCC e sollecitava la chiusura dei campi di internamento. A pochi giorni di distanza, 37 paesi, tra cui Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Russia, Corea del Nord, Filippine, Pakistan, Iran, Siria e Palestina – tutti paesi con posizioni politiche e forti interessi economici che li legano a Pechino – hanno replicato con una lettera a sostegno delle politiche attuate in Xinjiang. Inoltre, già nel marzo 2019 l’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI) aveva rilasciato un documento che “elogiava gli sforzi della Repubblica Popolare Cinese nel fornire assistenza ai suoi cittadini musulmani”.
Ad oggi, i paesi che hanno un forte interesse nazionale per la situazione nello Xinjiang non hanno preso una posizione chiara in riferimento alla questione uigura. La Turchia, per esempio, paese da cui proviene in origine la minoranza uigura, ha alternato richieste di chiarimenti a forti spinte cooperative (soprattutto nel settore economico) con la Cina. Il Kazakistan e il Kirghizistan, invece, che sono chiamati a rendere conto dei cittadini kazaki e kirghisi che risiedono nella regione, si sono astenuti da qualsiasi schieramento internazionale, salvo, nel caso del Kazakistan, discutere bilateralmente della questione a livello diplomatico. Questo atteggiamento ambiguo da parte dei due paesi – che pure potrebbero fare pressioni su Pechino per i cittadini con passaporto kazako e kirghiso – dimostra i limiti d’azione della comunità internazionale, interessata innanzitutto a salvaguardare i propri interessi nello Xinjiang e i propri rapporti politici ed economici con la Cina.
Se l’Unione Europea aveva già sollevato la questione dei diritti umani nello Xinjiang per voce dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, che riferì sul tema al Parlamento Europeo nell’ottobre 2018, gli Stati Uniti, nel giugno 2019, sono arrivati a minacciare di imporre sanzioni a Pechino se il sistema dei campi di internamento non venisse smantellato.
Gli schieramenti del luglio 2019 sono esplicativi di una forte spaccatura nella comunità internazionale sulla questione uigura. È una divisione che ricalca uno dei più antichi motivi di contenzioso delle relazioni internazionali: i limiti alla sovranità statale. Pechino tradizionalmente rimarca la sua posizione alternativa alle potenze occidentali, presentandosi come potenza legata a doppio filo al principio di non interferenza nelle sue relazioni con l’esterno. Questa norma cardine della politica estera cinese, seppur utilizzata come rassicurazione anche nei rapporti con i partner BRI, ha origine a metà degli anni ‘50 negli sforzi dell’allora neo-nata Repubblica Popolare Cinese (RPC) di innalzarsi a baluardo dei paesi non-allineati. Ruolo a cui Pechino non ha mai rinunciato del tutto. La sempre maggiore presenza a livello globale della Cina potrebbe ora aver esportato il “principio della non-interferenza” anche oltre i confini regionali tanto che sono sempre di più i partner di Pechino che ad oggi hanno inserito questa norma di comportamento nei meccanismi delle loro relazioni internazionali. Assegnando due prestigiose onorificenze all’attivista Ilham Tohti, tuttavia, l’Unione Europea sembra decisa a mantenere alta l’attenzione internazionale sullo Xinjiang e sulla questione della tutela della minoranza uigura.
Gli Stati Uniti hanno recentemente seguito l’esempio europeo. Dopo quasi un anno dalla sua approvazione al Senato americano, lo “Uyghur Human Rights Policy Act” è stato infatti firmato dal Presidente Donald Trump lo scorso 17 giugno, diventando così legge federale. Con questo atto diversi organi governativi statunitensi sono tenuti a monitorare e presentare report sulla situazione dei diritti umani in Xinjiang. Sulla base dei risultati, il paese potrebbe quindi decidere di prendere provvedimenti, tra cui anche applicare sanzioni.