Principale Arte, Cultura & Società Il tema dell’esilio nella commedia dantesca

Il tema dell’esilio nella commedia dantesca

di Stefania Romito

Una delle linee portanti del poema dantesco è il tema dell’esilio. È impossibile sopravvalutare il peso negativo che l’essere esiliati comportava a quei tempi: perdita di ogni diritto civile, necessità di ricorrere all’aiuto di altri.

Per Dante il problema era a chi, e quante volte, affidare nella Commedia gli eventuali annunci dell’esilio e a chi la profezia conclusiva. Dante si rendeva conto come assai diverso dovesse essere il suo porsi di fronte a questo trauma. L’orizzonte  municipale di quell’evento personale veniva ad allargarsi a un circuito europeo proiettando, su un piano universale, quell’exemplum  di iniquità ai danni di un giusto. Questo sviluppo ben si coglie nella serie delle predizioni attinenti all’esilio, a partire dalla prima affidata alla voce del primo fiorentino incontrato,  il goloso Ciacco.

Interrogato da Dante sulle sorti di Firenze, costui profetizza che in un primo tempo prevarranno i Bianchi (il partito che viene dal contado, dalla campagna) ma che entro tre anni andranno al potere i Neri, appoggiati dal papa, il quale al momento sembra barcamenarsi tra i due fronti opposti. Mentre ad personam è rivolta la profezia di Farinata degli Uberti (Inferno X), non passeranno 50 mesi che Dante sperimenterà quanto è amaro non imparare bene l’arte del ritorno in patria. È una precisa allusione a quella battaglia della Lastra del 1304, dopo la quale Dante non poté non comprendere come ormai per lui fosse divenuta impervia la strada di un rientro a Firenze.

Ma ancor più significativa  è la dichiarazione affidata a Virgilio, inequivocabile il riferimento a Beatrice, chiamata in causa come la definitiva rivelatrice della sorte amara riservata a Dante.

La terza profezia è affidata alla voce di Brunetto Latini (Inferno XV). A quest’altezza l’autore progettava di affidare a Beatrice una profezia conclusiva sul suo destino di esule. Di questo chiarimento finale non si farà più cenno in occasione delle profezie successive: la quarta dell’Inferno, posta in bocca al pistoiese e ladro Fucci, e le quattro del Purgatorio affidate e Malaspina, Oderisi da Gubbio, Bonagiunta da Lucca, Forese Donati.

Non possiamo immaginare quando Dante abbia cambiato parere, rendendosi conto dell’inopportunità di affidare a Beatrice un compito legato a un minimo di presenza civile o di competenza politica. Sono tutti uomini pubblici coinvolti in questo discorso, mentre a Beatrice si affidano problemi di ordine filosofico, etico o religioso. Al centro del Paradiso si accampa la nona, più ampia e davvero definitiva profezia, affidata al trisavolo di Dante, Cacciaguida (Paradiso XVII).

Nella mente di Dante esisteva un progetto generale, ma i particolari mutavano in corso d’opera anche perché egli era indotto a far conoscere, dunque a pubblicare, quanto via via componeva, il che non gli impediva di correggere la rotta se subentravano nuove intuizioni, ma dei risultati precedenti restavano le tracce, come nel caso delle predizioni riguardanti il suo esilio.

Non possiamo sapere quando sia maturata in lui l’idea di fondo del suo poema: la necessità di un viaggio nell’oltremondo per fare esperienza diretta del male, per ascendere attraverso la scala dell’espiazione, e infine godere dei vari gradi della salvezza celeste.

Il programma del viaggio nei tre regni ultraterreni era già chiaro fin dal I canto.

Stefania Romito

redazione@corrierenazionale.net

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