Principale Attualità & Cronaca 10 settembre 1958. Si apre il caso Fenaroli

10 settembre 1958. Si apre il caso Fenaroli

Negli anni ’50 del secolo scorso furono due in particolare i “gialli” che divisero gli italiani tra innocentisti e colpevolisti.

Il Caso Montesi. Fu un fatto di cronaca nera, datato 9 aprile 1953, in cui vide vittima la ventunenne Wilma Montesi e come protagonisti personaggi di spicco dell’Italia di allora, compreso tale Piero Piccioni, musicista, noto alle cronache rosa per essere stato il fidanzato di Alida Valli, figlio del vice Presidente del Consiglio di quel tempo, già ministro degli Esteri e personaggio di punta della Democrazia Cristiana di quegli anni, Attilio Piccioni. A causa dello scandalo, il politico vide così compromettente la sua permanenza al governo che si dimise nel settembre del 1954. Il caso rimane tra quelli irrisolti.

Non si era ancora spento l’eco del precedente che un altro “caso” infiammerà la stampa e gli appassionati di “nera”: 10 settembre 1954, il delitto di via Monaci, Roma. Più conosciuto come “caso Fenaroli”.

Personaggi e interpreti: Maria Martirano in Fenaroli: la vittima;

Il geometra Giovanni Fenaroli, titolare della società Fenarolimpresa: coniuge, mandante dell’assassinio;

Raoul Ghiani: il killer omicida;

Carlo Inzolia: Fratello di un’amante di Fenaroli, intermediario;

Movente: una polizza sulla vita della Martirano accesa a Favore del coniuge per 150milioni, milioni del 1958, una fortuna.

Il luogo: Roma, via Monaci 21.

E ancora, secondo un’alta versione dell’accaduto si ha un alto personaggio politico, innominato e innominabile: il ricattato. Giovani Fenaroli e la moglie: i ricattatori. I Servizi Segreti italiani comandati da un altissimo e noto ufficiale: i sicari.

so Ce n’è per un giallo di successo. E così in vero è stato. Per anni, almeno una pagina dei giornali, fu a disposizione di questo fatto di cronaca nera, la cui conclusione, è bene dirlo subito, si basò su indizi ma non su una prova “regina”. La pistola fumante e la mano che sparò, non furono mai trovate, tanto per dire.

Tutto ha inizio l’11 settembre 1958, quando di mattina presto Maria Teresa Viti suona il campanello di via Monaci 2, in Roma. E’ la domestica della signora Maria Martirano che come ogni mattina si reca al lavoro. Suona più volte ma nessuno apre. Preoccupata, chiede aiuto, al che un vicino di casa riesce a entrate nell’appartamento rompendo il vetro della cucina. La scena che si presenta ai suoi occhi non è delle più belle, specie per chi non è abituato a certi macabri spettacoli. La signora Martirano è riversa in cucina morta, strangolata si saprà più tardi. In casa manca del denaro e dei gioielli. Omicidio a scopo di rapina? No; come capita spesso in queste occasioni, gli investigatori fin da subito puntano invece la loro attenzione sul marito Giovanni Fenaroli, imprenditore edile con qualche difficoltà finanziaria. E come dare loro torto, visto che poco tempo prima i coniugi avevano stipulato un’assicurazione sulla vita, con premio di 150milioni anche in caso di morte violenta, a favore di entrambi.

La cifra, molto consistente per i tempi, faceva senza alcun dubbio comodo al Fenaroli, spesso a corto di liquidità. Ma costui ha un alibi di ferro. Infatti, considerato che il decesso della moglie doveva farsi risalire tra le 23,30 e le 24 del giorno 10, il Fenaroli a quell’ora era a Milano, dove abitualmente vive e dove ha sede la “Fenarolimpresa”, azienda che s’interessa di lavori edili. E’ in compagnia dell’amministratore della società, il ragioniere Egidio Sacchi. «Ma se il marito, al momento della morte della Martirano è nel capoluogo lombardo anziché in via Monaci a Roma», pensano gli investigatori, «nulla vieta che vi possa essere un mandante ed un esecutore in questo delitto». Delitto su commissione, così le indagini continuano, “in tutte le direzioni”.

Il primo concreto indizio che incrina il velo d’innocenza di Fenaroli è dato dalla confessione del suo ragioniere, Egidio Sacchi, il quale interrogato ben bene dalla polizia si lascia andare a un’ammissione che suona all’incirca così: ero presente quando il Fenaroli ha avvertito telefonicamente la moglie che nella serata sarebbe passato un suo uomo di fiducia, Raoul Ghiani, al quale avrebbe dovuto consegnare alcuni documenti più che delicati.

Chi era questo Ghiani? Un giovanotto di professione elettrotecnico conosciuto dal Fenaroli in casa di certo Carlo Inzolia la cui sorella era da tempo la sua amante. Una volta rintracciato il Ghiani e messolo in rapporto col Fenaroli grazie alla complicità dell’Inzolia agli inquirenti non fu difficile aggiungere le altre tessere del “puzzle” e ricostruire il delitto, con al centro il bisogno di denaro. Il Fenaroli per metterlo nell’azienda in difficoltà pre fallimentare e il Ghiani per soddisfare il suo bisogno di “bella vita”.

La verità processuale offrì questo quadro all’opinione pubblica, la cui dinamica era stata elaborata dal “vedovo”.

Il Ghiani la sera del 10 settembre 1958 aveva lasciato la fabbrica ove lavorava verso le 18,30, con una macchina veloce avrebbe raggiunto l’aeroporto della Malpensa da dove si sarebbe imbarcato sul volo Milano Roma delle ore 19,30 col falso nome di Wolfango “Rossi”. Una volta nella capitale avrebbe raggiunto via Monaci dove la Martirano lo fa entrare in casa in quanto preavvertita dal coniuge, senza immaginare che l’uscio lo spalanca al suo assassino. Subito dopo, il viaggio di ritorno a Milano in treno, in vagone letto, dove giunge appena in tempo per entrare in fabbrica la mattina. Nel corso del processo, gli avvocati difensori tenteranno inutilmente di smontare questa teoria puramente indiziaria, dimostrando che non stava in piedi, a meno di possedere un’auto autorizzata a saltare tutti i semafori rossi, e superare senza intoppi il traffico caotico delle due città. Alla Corte invece l’idea di balzare su un aereo, sbarcare, uccidere e saltare su un treno, il tutto frammisto ad attraversamenti di metropoli a folle velocità come nei film americani, piacque o se la fecero piacere e la conseguenza fu due condanne, lette alle 5 della mattina dell’11 giugno 1961, davanti ad un migliaio di curiosi fuori e dentro l’aula che  poi diventeranno. Così risultano distinte nel tempo. Corte d’Assisi: Fenaroli e Ghiani, ergastolo. Inzolia, assolto per insufficienza di prove. Corte d’Assisi d’Appello: Fenaroli e Ghiani, ergastolo; Inzolia, quale intermediario e complice, 13 anni. Giovanni Fenaroli morirà in carcere nel 1975, Ghiani riceverà la grazia nel 1983, Carlo Inzolia otterrà nel 1970 la libertà condizionata.

Subito dopo, circolò e per dovere di cronaca lo riferiamo, un ulteriore scenario attorno al caso Martirano. Il giornalista Antonio Padellaro, aiutato  dalle indagini di Enrico De Grossi, colonnello in pensione del Sifar diede un’altra lettura del “caso”. Secondo questi, Fenaroli era riuscito ad avere in mano documenti scottanti relativi ad un giro di tangenti coinvolgenti un innominabile politico italiano. Sulla scorta di ciò il  Fenaroli avrebbe preteso 500 milioni in cambio del silenzio e della restituzione dei documenti. Maria Martirano, complice del marito, ne avrebbe voluto anche lei, in via autonoma, una buona parte, acché tramite l’interessamento di un alto ufficiale dei servizi d’informazione, sarebbe stata messa a tacere per sempre da due uomini dei servizi segreti.

In ogni caso l’affare Fenaroli va considerato, un caso di cronaca nera, non chiarito o a voler essere generosi non completamente risolto. L’appasionante difesa del celebre avvocato Carnelutti, volta a sottolineare le lacune dell’accusa, autorizzato a rivolgersi alla Corde da seduto, una mano sulle sue carte e l’altra sul bastone che spesso picchiava sul piancito disapprovando (Carnelutti era Carnelutti, avvocato, giurista e accademico, aveva insegnato il mestiere a giudici e avvocati) non fu ritenuta convincente anche se non furono  mai trovate, di contro, convincenti controdeduzioni.

Un dato di fatto di primo piano però emerse dal procedimento giudiziario. L’investigatore Ugo Macera, rintracciò presso la Compagnia Wagon- Lits di Roma la copia del bollettino rilasciato dal Conduttore della Carrozza Roma-Milano, e sul quale figurava ben distintamente il nome di Ghiani.

Giuseppe Rinaldi

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