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Il castello interiore di Santa Teresa d’Avila come paragone al pensiero di Franz Kafka

Il CASTELLO INTERIORE di Santa Teresa di Gesù è riconosciuto come uno dei testi più incisivi di tutta la letteratura sul tema della infinita dignità dell’uomo. Santa Teresa lo scrisse nel 1577, di getto, in soli 6 mesi, in obbedienza alla richiesta dei superiori, come aiuto nel cammino di orazione delle sue figlie. Il testo inizia così: “Oggi stavo supplicando il Signore di parlare in luogo mio, perché non sapevo come cominciare ad obbedire al comando che mi è stato dato, ed ecco quello che mi venne in mente…”

L’idea di paragonare l’anima ad un Castello di diamante venne a Teresa durante la preghiera, mentre scongiurava Dio di voler “dettare Lui stesso” quel trattato sulla preghiera che i superiori le avevano chiesto di comporre. Il castello splendente è l’immagine di un’anima in grazia. Teresa ce lo presenta come suddiviso in 7 Dimore o “Mansioni” (dallo spagnolo Moradas o Mansiones). l protagonista di tutte le Dimore è Dio stesso, che attrae a sé l’anima. Sette dimore vuol dire dunque: sette fondamentali modalità di amare Dio. L’amore è incomparabilmente ricco, tanto che ogni anima può dirsi collocata davanti a Dio in maniera unica. Chi entra nelle prime dimore – dopo aver a lungo abitato fuori dal Castello, come un mendicante – non solo vi entra accompagnato da molte brutture a cui è da tempo abituato, ma all’inizio non ne percepisce tutta la bellezza, anche se esso si è già, per così dire, parzialmente risvegliato e illuminato.

Si può dire che anche nelle Seconde Dimore si aggirano “bestie velenose, pericolose e insidiose”, che tentano al male. La situazione dell’anima non è molto diversa da quella già descritta: ella si porta ancora dietro il retaggio della passata condizione (quando viveva “come se Dio non ci fosse”). Le persone che riescono a entrare nelle Seconde Dimore, quindi, sono ancora proclivi al male, e le cadute peccaminose non mancano. Tuttavia qualcosa di essenziale è accaduto: la loro anima ha cominciato a sentire la voce di Dio. Lottando e perseverando nelle Seconde Dimore, l’anima si è rafforzata nella decisione di non uscire più dal suo “Castello interiore”, cioè di non interrompere mai più il rapporto d’amore che la lega al suo Dio. Ha imparato così a “vivere in preghiera” e a disseminare la sua vita di “atti di preghiera”. Le Terze Dimore rappresentano dunque, per moltissimi buoni cristiani, il luogo in cui abiteranno quasi tutta la vita, o nel quale trascorreranno lunghi anni. Santa Teresa non teme di chiamare “eletti di Dio” coloro che abitano in queste Dimore, e tali sono, soprattutto se cercano di corrispondere generosamente all’amore, se si rafforzano nell’umiltà, se sono pronti all’obbedienza e al compimento della volontà di Dio, se cercano di controllare le loro inclinazioni disordinate, se approfittano volentieri di buoni esempi che vedono attorno a sé. Quindi nella prima dimora possiamo dire che la porta per entrare è la preghiera e la meditazione e l’orazione. Non orazione quella di colui che non considera con chi parla, chi è che parla, cosa domanda e a chi domanda, benché muova molto le labbra. Ma se alcuno ha l’abitudine di parlare con la maestà di Dio come con uno schiavo, senza pensare se dice bene o male; contento di quello che gli viene in bocca o ha imparato a memoria per averlo recitato altre volte…non tengo ciò per orazione, né piaccia a Dio che vi siano cristiani che così facciano”.  Nella seconda dimora Dio entra nell’anima attraverso richiami esterni, la lettura di un libro, le parole di una predica, o anche le esperienze dolorose, come le malattie. Se queste chiamate di Dio sono ascoltate e la propria vita è ordinata alla volontà di Dio compiendo opere buone, cercando di stare lontani dai peccati, la ricompensa è costituita dalle consolazioni che sono le emozioni che accompagnano l’essere umano. Siamo ancora nella normale vita di fede; ancora non è iniziato il cammino della mistica. Dalla seconda dimora si può passare direttamente alla quarta dimora dove allorché l’iniziativa si sposta completamente nelle mani di Dio; non si tratta del movimento dell’anima a Dio, ma del movimento che va da Dio all’anima, e ciò si concretizza nella differenza fra consolazioni e dolcezze: queste ultime hanno la loro origine in Dio e consentono l’orazione di quiete. Alla quinta dimora vediamo come si manifesta un’altra «conversione», ci si accorge che la fonte divina sgorga dal profondo dell’anima. In tal modo si entra in sé stessi con i sensi e le potenze dell’anima; per esprimere ciò nei termini filosofici sopra indicati si nota che l’io si sposta dall’anima sensibile, ma anche dall’immaginazione e dall’intelletto, verso l’interno dove queste ultime capacità umane vengono illuminate da una luce nuova.

Si delinea nel gioco sottile dell’essere addormentati o desti; i sensi e le potenzialità umane si sono addormentati, ora si è svegli per Dio, perciò ci si addormenta alle cose del mondo e ci si risveglia in una dimensione diversa: si attua l’orazione di unione durante la quale nasce il desiderio di lasciare la vita mondana e di lavorare per Dio alla salvezza delle anime.  Nella sesta dimora finalmente ci avviciniamo al vero cuore del matrimonio con il futuro compagno del resto della vista con il fidanzamento spirituale; questa immagine serve per comprendere in termini umani ciò che accade fra Dio e l’anima, quando cercano di conoscersi e di provare il loro amore. Qui si manifesta anche una grande sofferenza che sembra riservata solo a questa fase nel Castello interiore, mentre è più presente e diffusa nel cammino descritto nelle opere di san Giovanni della Croce che suor Teresa Benedetta prenderà in esame successivamente.

Tuttavia, nonostante l’aridità interiore, la difficoltà di pregare, l’anima sente la vicinanza di Dio, ode le locuzioni o sperimenta l’estasi quando viene toccata da una parola di Dio, o infine sente il volo dello spirito, nel quale si rivela in un istante ciò che non potrebbe impa­rare mai con le sue forze. Si manifesta a questo punto una sorta di tensione per l’anima: da una parte vorrebbe evitare ogni rapporto con gli altri, dall’altro vuole condividere la sua gioia. Sembra che questo secondo desiderio prevalga nei due grandi mistici carmelitani, santa Teresa e san Giovanni, essi, infatti, vogliono comunicare le proprie esperienze per una finalità pratico-religiosa, quindi per uno scopo educativo e tenta­no, perciò, di dire a parole ciò che in realtà è indicibile? Nella settima e ultima dimora è lo stato di unione con la divinità.

Ma se finora si è parlato di Dio, adesso ci si riferisce esplicitamente alla Trinità; le Tre Persone si chinano sull’anima e si manifestano a essa in modo che la «divina compagnia» non l’abbandonerà più anche se la visione diretta non l’accompagnerà sempre, ma a tratti. È proprio qui che si rende manifesto il mistero trinitario, secondo la testimonianza dei misti 18. L’incontro avviene nel punto centrale e più intimo dell’anima, quello che già sant’Agostino aveva indicato come il luogo dell’inabitazione di Dio; egli non solo aveva certamente sentito tutto ciò, ma aveva anche mostrato con un’argomentazione razionale che se si cerca Dio, in qualche modo bisogna già sapere che cosa è, anche se oscuramente, perché è sperimentato in prima istanza come presente in se stessi: «Entrai, da te guidato, nell’intimo della mia anima e ci riuscii perché tu ti facesti mio aiuto. Entrai e vidi con l’occhio della mia anima, qualunque esso fosse e sopra di esso, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile, non questa luce comune e visibile ad ogni uomo, né una luce del medesimo genere, ma più intensa, quasi che essa da chiara si facesse smagliante ed occupasse tutto con la sua immensità [ … ]. Chi conosce la verità conosce quella luce e chi conosce quella luce conosce l’eternità. È l’amore che fa conoscere. O verità eterna, o vero amore e diletta eternità! Sei tu il mio Dio, a te anelo e di giorno e di notte! ».

Dopo aver letto questo libro di profonda interiorità vediamo possiamo paragonare tutto ciò che egli insegna alle consorelle un po’ alla nostra vita di tutti i giorni, anzi non proprio per tutti , solo per quelli che si accostano umilmente alla sua essenza di Re e Maestà dei cuori. La vita è come un castello, un castello di nostra proprietà, al cui interno è la camera da letto dove il Signore, padrone del castello e nostro amante, ci attende. Perché quella camera è anche la nostra camera, la camera d’amore che ci appartiene. Ma noi siamo fuori del castello, alle sue porte, a chiedere l’elemosina, senza comprendere che quel castello è nostro e vi possiamo entrare come e quando vogliamo. Viviamo di carrube fuori del castello eppure ne siamo i proprietari. Ecco la potente metafora del Castello interiore di Teresa d’Avila [1]. Quante volte ci sentiamo come fuori dalla nostra stessa vita, spettatori di un film che scorre e che non è il nostro. Quante volte ci sembra di essere fuori dal cuore della nostra stessa vita, persi dietro desideri secondari, poiché non sappiamo ancora dove mettere radici, poiché non sappiamo cosa realmente desideriamo.

Nella visione kafkiana l’uomo è come un alienato che attende invano. Esiste un castello, un complicato labirinto inaccessibile, pensato per ogni singolo uomo, ma solo perché ognuno vi sprechi ogni energia inutilmente per entrarvi, per trovare un senso alle cose. Per Teresa, invece, l’uomo può entrare nel castello se solo lo vuole. Perché la vita non è un assurdo. Perché l’uomo, nella sua visione, non desidera tanto comprendere la Legge, bensì intuisce di avere un cuore, la propria anima, in cui abita Dio. Anche per Teresa chi non entra nel castello resta un alienato, ma ella scrive perché ognuno trovi la fiducia di non restare ai margini della vita, bensì diventi credente, scoprendo che è possibile entrare nel cuore della propria vita, per scoprire che ci appartiene e che Dio ci attira a sé. Il castello di Franz Kafka invece  è un romanzo incompiuto composto nella prima metà del XX secolo.

Il romanzo si sviluppa su una trama quasi indescrivibile. K. è l’agrimensore, così crede, di un villaggio innevato e senza nome di cui si sa per certo che è governato dai signori di un castello. Il castello è ben visibile dal villaggio ma quando K. prova a raggiungerlo scopre che la via principale non raggiunge l’imponente struttura si ritrova presto a vivere in un villaggio in cui le persone si comportano nei modi più insoliti pur mantenendo un’apparenza di normalità e così la percepisce lo stesso K.. K. stesso ha grandi difficoltà a camminare, spesso si deve letteralmente aggrappare ad altri per camminare. Ma non è l’unica difficoltà del personaggio principale: costui si sente sempre un estraneo, emarginato, limitato. Ogni suo fine è frustrato da rallentamenti nella successione degli eventi, rallentamenti che determinano l’impossibilità di raggiungere lo scopo. Agli inspiegabili rallentamenti si alternano evoluzioni imprevedibili dello sviluppo degli eventi, come quando K. cerca di parlare con il potente Klamm ma non ci riesce in alcun modo perché Klamm, già membro influente del castello, può essere visto solo da chi vuole lui. Nell’universo kafkiano può essere normale l’inverosimile  e, in questo senso, con “normale” bisogna intendere il riflesso che eventi implausibili hanno sulla coscienza di K.: quando K. tiene alcuni discorsi al limite del delirio con altri personaggi (si pensi al caso del sovrintendente, ai vari dialoghi con Frieda specialmente o in ultimo con Pepi) egli stesso non sembra percepire l’assurdità della situazione se non in un modo la cui lucidità sa più di follia che di raziocinio. Il romanzo termina incompiuto con K. che non è ancora riuscito ad avvicinarsi di un solo passo in più verso l’agognato castello.Il castello è un lavoro geniale scritto da un genio la cui grandezza è sondabile solo mediante uno sforzo di volontà che deve lottare contro due resistenze, entrambe interiori.

La prima è offerta dall’intrusione costante dell’Io di Kafka dentro il lettore, che lo fa discendere nel profondo abisso dell’angoscia senza ragione. La seconda è dovuta alla struttura stessa della prosa che conduce la coscienza a esperire direttamente il senso dal volto senza nome dell’incubo notturno. Il castello, infatti, ha una struttura ad elica in tre sensi: (1) la trama è continuamente ritorta verso un punto esterno (il castello) per ritornare verso uno interno (il villaggio), mentre (2) la prosa è perpetuamente oscillante tra lunghe deviazioni sistematiche a incisivi ritratti di realtà per fondersi in un’unità talvolta incomprensibile come l’oscillare del pendolo; infine (3) K. alterna continuamente stati di esaltazione a stati di annichilimento interiore. Questi tre punti nodali strutturali, perché non si tratta di contenuti, hanno la struttura propria degli incubi più angosciosi: il perpetuo ripetersi amplificandosi degli eventi incomprensibili della coscienza. A chi non è capitato di sognare di essere ancora sui banchi di scuola per ridare la quinta liceo? Chiedendosi, allo stesso tempo, come ciò sia possibile? Il libro di Kafka è fondato inconsapevolmente su questa struttura a scatole cinesi in cui la più piccola contiene anche la più grande, laddove la coscienza di K. contiene il mondo che lo circonda e viceversa. Possiamo vedere come sia a livello filosofico che a livello spirituale le due stesure hanno qualche piccolo dettaglio in comune, diversa divisione, ma ognuno di loro cercava un modo dove poter posizionare l’anima o i concetti per non lasciarli all’acqua di rosa.

Il mondo de Il castello è diviso in due parti di cui una è totalmente opaca: da un lato abbiamo il castello, dall’altro abbiamo il villaggio. Il castello è posto più in alto rispetto al villaggio, ed è sostanzialmente irraggiungibile dal villaggio stesso, nonostante non ciò non sia negato da alcuna legge fisica. Ed è questo un aspetto illuminante da comprendere: non c’è nulla che vieti di raggiungere il castello, nessuna legge scritta, nessun cartello ma di fatto non si può raggiungere per quanti sforzi si possa tentare. C’è dunque un’altra scissione tra il mondo del castello e quello del villaggio: il mondo del castello è regolato da delle leggi che non esauriscono il suo reale comportamento, esso non si riduce alla sua sola burocrazia (ad esempio) ma si fonda in gran parte su di essa cosicché se la sola burocrazia non basta a raggiungere il castello, così non è possibile farne a meno. Ma nemmeno il contrario è possibile, laddove il castello non sarebbe raggiungibile neanche per vie traverse perché sono di per sé illegali. E allora la legalità stessa del castello diventa incomprensibile perché non è né puramente formale (codice legale reale) né puramente informale (regole valide ma non legali). Così che ogni tentativo sarà sempre valutabile in modo negativo perché può difettare dal punto di vista formale o sostanziale o da entrambi. E così il castello ha delle regole sue proprie, non del tutto perscrutabili ma probabilmente sensate. Di sicuro sono molto severe e vincolano sia i membri del villaggio sia quelli del castello ma in modo diverso.

Nessuno si chiede dove poter trarre ragione del diritto, dove poterlo leggere per esteso. Del castello si può dire solo che esiste perché si vede, e alcuni peculiari effetti delle decisioni di quelli ivi vi lavorano. Ma la stessa possibilità di contatto tra i popolani del villaggio e gli uomini del castello è di fatto negata. Alcune volte, comunque, capita che alcuni popolani particolarmente fortunati vengano contattati dai personaggi del castello. In genere perché i membri del castello vogliono alcuni peculiari servizi che possono direttamente consumare al villaggio: pernottamenti, trasporti, prestazioni sessuali… Non è chiaro né quale sia il limite dell’influenza del castello né quali siano i suoi doveri rispetto ai cittadini. Solo è chiaro che i cittadini devono la loro stessa esistenza al villaggio ai membri del castello, così che questi possano disporre come meglio credano della massa dei popolani. Il villaggio è costituito dalla massa dei popolani che soggiacciono alle leggi del castello. La popolazione viene descritta sommariamente come ostile nei confronti di K., paurosa e aggressiva, ma non per questo capace di rivoltarsi contro un nemico quale che sia. Il villaggio è la propaggine orizzontale dell’alto castello, all’interno del quale si vive del castello e per il castello.

L’ostilità intrinseca del popolo si rivolge sostanzialmente verso sé medesimo, laddove c’è troppo rispetto e troppa paura per insorgere contro il castello. Ma è soprattutto la responsabilità dispersa dei membri del castello a rendere impossibile ogni ulteriore focalizzazione: ogni servizio del castello è gestito da un sistema i cui individui sono solo degli esecutori di un ordine prestabilito e superiore al cui senso non hanno alcun accesso. I membri del castello sanno solo che c’è un ordine, che è vincolato da alcune regole molto precise, ma non sanno indicare quale sia la sostanza, il perché di tale ordine regolare. Ciò che sanno è che devono applicare il regolamento, così come i popolani sanno che lo devono rispettare. Per questo K. si trova in una strana posizione: non fa parte del popolo, quindi avrebbe diritto ad alcuni compiti relativi alla gestione di una parte (insignificante) del castello e quindi è un estraneo rispetto al popolo; ma non fa parte neppure del castello, perché non ha alcun ruolo definito e riconosciuto dalle regole del castello, per tanto è estraneo anche rispetto ai membri del castello. Perciò K. è un estraneo che getta un’ombra sulle già misere esistenze dei popolani. Essi hanno paura di K., ma non possono ignorarlo. Essi sanno che è uno straniero e per questo non possono integrarlo, per quanto non possono respingerlo del tutto per le sue eccentricità: proprio perché è uno straniero e non è ancora amalgamato all’interno del sistema non possono rimproverargli più di tanto. Il mondo di Kafka ne Il castello è continuamente distorto nella consistenza e nella forma ed è dovuto a questa duplice natura polarizzata che si contra attorno al castello e al villaggio, creando così una frattura perdurante in K. e in tutti i personaggi. Questi, infatti, ricalcano questo stato di cose distorto.

Dovremmo avvalerci di un’immagine per caratterizzare i personaggi, perché la sola razionalizzazione non basta: ogni uomo ha una particolare caratteristica che un disegnatore di caricature espande a dismisura. Kafka ha eseguito un ritratto caricaturale di alcuni generi di persone e le ha rese irriconoscibili proprio mediante questo espediente farsesco. Ad esempio, gli aiutanti di K. fanno le cose più strane, i Barnabas hanno ognuno le sue peculiarità, Frieda si dilunga in discorsi al limite della comprensibilità, il sovrintendente conserva ogni pratica in un armadio e viene aiutato dalla moglie a ricercare i fogli buttati in terra… La distorsione dei singoli personaggi non comporta direttamente la perdita di raziocinio di K., ma anzi la estendono, rendendo il risultato narrativo come se il carnevale fosse la realtà e ci si finisce anche per abituarsi all’idea. Il risultato è uno straniamento progressivo del punto di vista in cui la realtà descritta nel romanzo finisce per essere guardata attraverso una lente che allontana: lo spettatore-lettore finisce presto per scindere il romanzo dal sé, unico modo a sua disposizione per sopravvivere ad una realtà di delirio angoscioso insostenibile. Ed è solo in quel momento che ritrova Kafka, come se l’autore lo aspettasse allora per lasciargli vedere come egli vede e considera le cose.

Il romanzo, infatti, può essere visto come una rilettura sistematica dell’individuo di fronte all’incomprensibile. Incomprensibile che non è più la natura, gli eventi fisici, le disgrazie individuali. Incomprensibilità che è sistemica, del complesso organizzativo umano e delle sue risorse. Gli esseri umani diventano essi stessi incomprensibili, raggiungibili solo mediante un processo lento di razionalizzazione progressiva operata solo per non impazzire. Il castello, infatti, non è solo il simbolo supremo dell’estrema autorità giudicatrice, ma anche come il filo di una matassa invisibile che tiene i fili delle marionette sottostanti. Ma nell’immagine delle marionette non viene bene espresso un fatto: che il loro comportamento è comunque gestito da una intelligenza superiore, e nel castello non appare niente del genere.

Esso è solo un insieme mal gestito di agenzie (come dimostra lo strano caso di K., l’agrimensore assunto e che nessuno vuole, al quale viene affidato il ruolo di bidello scolastico che però lui non vuole) che non lascia intravedere nessun ordinatore superiore. Ed allora che lo sgomento dell’individuo si staglia con la sua angoscia correlata: se non c’è nessun burattinaio, allora i burattini che fanno? Agiscono, si muovono e hanno anche dei fili, ma non hanno alcun senso. E, ancora peggio, preferiscono questa perpetua condizione di non senso, purché vincolata da leggi imperscrutabili, che accettare una realtà ben diversa: non avere più un castello per non avere leggi. Ma questo è appunto l’impensabile, proprio perché l’individuo del paese ha già accettato non solo la regola illogica ma anche il suo correlato interiore: l’assurdità di un ordine che va bene purché ci sia un ordine qualunque. In questa ottica il senso stesso dell’individuo si discioglie in una continua privazione di comprensibilità, sostituita da un’accettazione e aggressività intrinseca. Sono tutti aggressivi nel villaggio, K. compreso. Frammentato l’Io dell’individuo, frammentata la società. Non si può essere amici in un mondo senza senso proprio perché l’amicizia è prima di tutto un accordo su un principio, un senso di pace interiore condiviso. Ma appunto questo non c’è. E’ del tutto assente. E allora K. è solo uno degli estranei, perché a ben guardare, tutti i popolani sono estranei tra loro (ciò si mostra continuamente al lettore attento: i Barnabas abbandonati al loro destino, il fatto che i popolani non parlino mai tra loro se non molto raramente, il fatto che non ci sia contatto fisico o psicologico tra persone qualunque). Non solo si è estranei e aggressivi, ma si finisce per essere rancorosi: non comprendendosi, non potendosi accordare, il popolo finisce solo per non riconoscere le ragioni degli altri. Non a torto, perché nessuno ha ragione (il caso del maestro di scuola sarà considerato emblematico).C’è chi ha visto ne Il castello una visione propriamente ebraica del sentire, come anche La Metamorfosi (tant’è). Francamente noi non abbiamo trovato una sola ragione interna al romanzo per asserire questa presunta ovvietà (Kafka era un ebreo, un ebreo in Praga, un ebreo in Praga che avrà due sorelle morte in campi di concentramento). Ma come sempre gli ebrei fanno da capro espiatorio: se c’entrano, non è rilevante al fine della lettura.

O, perlomeno, di una lettura che voglia prendere sul serio Il castello come un’opera d’arte a sé, intrinseca e non da scusare in qualche modo. Non è Kafka, simbolo dell’ebreo errante che finirà presto in un forno crematorio a parlare (circa dieci anni dopo Hitler prenderà il potere in Germania): è molto di più. È l’individuo del mondo occidentale che ammette dentro di sé la sua sconfitta di fronte al sistema. A quello che chiama “sistema”. Che non sa cos’è, come gestire, non sa come accedere, non sa neppure se esista. Di sicuro è irraggiungibile, ma di sicuro il “sistema” può raggiungere lui. Ne parla come se si trattasse di un male incurabile, sussurrando, abbassando la voce, facendo finta di non sapere. Ma in cuor suo sa che quel “male”, quel “sistema” è qualcosa che lui non sa neppure cos’è, che ha terrore a nominare, addirittura a pensare e a cui deve interamente la sua esistenza. Egli riceve tutto dal “sistema” e, al più, ne può parlare male. Al più può sfogarsi con i segretari degli uffici. Ma in fondo sa benissimo che non può vivere senza il “sistema”: questa è la verità che Kafka ha ricostruito. Questa è la verità che un uomo sensibile, di una potenza emotiva fuori dal comune, ha visto e non ha saputo metabolizzare.

Ma non per colpa sua, non per colpa di K.. Ma per colpa di quegli omuncoli che tutti conosciamo e di cui non sapremmo in alcun modo fare a meno. Per capire tutto questo non c’è bisogno di essere ebrei. Basta essere degli uomini, come lo fu Kafka. Un umano troppo umano, mentre Teresa una donna molto Santa e devota allo Sposo.

Ida Procopio

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