Principale Politica Il problema della giustizia in Italia. Il rischio di un cambiamento gattopardesco

Il problema della giustizia in Italia. Il rischio di un cambiamento gattopardesco

l problema della giustizia in Italia non può essere affrontato negli spazi di una nota giornalistica: tenterò, pertanto, di articolarlo in più puntate, facendo finta di credere che in un Paese che ha immaginato a destra le “ronde padane” e che ha pensato, poi,  a sinistra, di creare il corpo degli “assistenti civici per il distanziamento sociale(!)” residui ancora una possibilità di parlare di liberalismo e di fare proposte per riformare in senso democratico un qualsiasi aspetto della vita collettiva.

D’altronde, occorre parlarne, perché il tacerne sarebbe vile.  Il sistema di giustizia vigente in Italia rappresenta il vero punctum dolens del nostro ordinamento giuridico e produce un effetto inquinante nell’intera vita nazionale.

Pertanto, delle due l’una: o va trasformato ab imis, cominciando, cioè, dalla Carta fondamentale della Repubblica, o è meglio non mettervi mano, per non peggiorare le cose.

Quando Montesquieu aveva elaborato il principio della separazione dei poteri era partito dalla considerazione che uno Stato preoccupato e osservante della libertà dei cittadini (idest: liberale) doveva essere sempre in grado di arrestare l’esercizio di ognuno dei tre poteri fondamentali, per il semplice motivo che chiunque abbia potere è inevitabilmente portato ad abusarne. Solo così la democrazia poteva ruotare intorno a un cardine giusto.

Il principio era già nella civiltà giuridica greco-romana, sia pure espresso solo in forma indistinta. Le voci, in qualche modo dissenzienti, erano quelle del solito Platone e dei suoi seguaci, per i quali il vero problema non era tanto quello di garantire l’indipendenza dei giudici dal potere politico, ma di sovra ordinarli agli altri poteri.

Ai tempi di Roma, in soccorso del vincitore filosofo ateniese (avrebbe detto Ennio Flaiano), erano venuti gli ebrei e i cristiani immigrati nell’Impero.

La pacifica immigrazione mediorientale corroborò un diverso concetto di giustizia, direttamente desunto dalle rispettive religioni (peraltro non dissimili).

La Giustizia   non poteva essere coordinata con altri poteri perché il suo fondamento risiedeva direttamente nella volontà di Dio.

Come prerogativa divina, affidata all’Uomo per la sua “gestione” terrena, il potere giudiziario non poteva essere costruito che come un vero e proprio “Super-potere”: mitigabile o annullabile solo dalla Misericordia, altra prerogativa divina.

Solo pochi Italiani, forse, sanno che, sotto l’aspetto giustiziale, il nostro Paese rappresenta quasi un unicum: nel mondo civile, solo Israele condivide il destino del Bel Paese di avere un Ordine giudiziario che è, in buona sostanza, un potere sovraordinato agli altri due, superiorem non recognoscens e al tempo stesso privo di ogni investitura popolare.

In altre parole, con buona pace delle teorie di Montesquieu, Israele e Italia, hanno collocato il potere giudiziario al di sopra degli altri due, Esecutivo e Legislativo, non tenendo in alcuna considerazione l’idea del bilanciamento delle funzioni statali, da secoli ormai, auspicato da fior di giuristi e uomini politici liberali e democratici.

Lo strapotere dei pubblici accusatori e dei giudici ha, quindi, un’origine tutt’altro che razionale perché sostanzialmente religiosa.

Se è presente, infatti, oltre che in Italia, nel solo Stato d’Israele, lo èmolto verosimilmente, perché gli Ebrei e i Cattolici (Cristiani di più severa ortodossia) ritengono la Giustizia il sommo potere di Dio, temperabile solo dalla Misericordia.

I risultati pratici di una tale visione, applicata alla vita degli uomini sulla Terra sono stati e sono, per forza di cose, del tutto disastrosi.

Essi sono, innanzitutto, alla base del travolgente incremento della corruzione, perché collegati con il perdonismo e il lassismo giudiziario e carcerario.

Nei due Paesi, entrambi in preda al caos di diverse organizzazioni terroristiche o di criminalità organizzata, operanti sul loro territorio e soggetti a una corruttela endemica sempre più diffusa e capillare, parlare di perdono ad ogni piè sospinto è un vero incentivo a delinquere.

Bisogna partire dalla laica considerazione che i compiti rieducativi di cui menano vanto i cappellani delle italiche prigioni sono estranei (e incompatibili) al dovere di uno Stato di proteggere le persone per bene dai danni arrecati dai malfattori.

In uno Stato non confessionale, questi devono finire in galera per i loro reati e non per guadagnarsi il perdono divino e assurgere alla gloria del Regno dei Cieli.

Le “redenzioni dei peccatori” devono avvenire nei conventi e in altri luoghi religiosi di contrizione: fuoricomunque, dalle carceri dello Stato, luoghi destinati all’espiazione della pena e non alle pratiche di pentimento di fronte a Dio.

Le presenze ecclesiali, certamente utili per il conforto umano dei condannati, non dovrebbero porre “ostacoli morali” al perseguimento di fini pubblici esemplarmente punitivi.

Infine: la perdonistica “teoria dell’emenda” è la fonte precipua anche dello scoramento per le Forze dell’Ordine che vedono, con metodica frequenza, rimessi in libertà delinquenti che essi ritenevano di avere affidato alla Giustizia e non a una misericordia, vestita con toga e tocco (in luogo dei paramenti sacri).

In conclusione, la cancellazione di un “super-potere” giudiziario e la sua riconduzione alla posizione paritaria di tutti e tre i poteri dello Stato è un must ineludibile, anche se vi vogliono eliminare eventuali tentativi di “golpe giudiziari”.

In Israele, per la prima volta nella storia del Paese, il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato incriminato dal procuratore Avichai Mandelbit per corruzione, frode e abuso d’ufficio.

Secondo le parole attribuite dalla stampa locale al leader politico vittima dell’“assalto”, si tratterebbe di un vero e proprio “complotto”, di un “tentativo di golpe portato avanti con una rivoluzione giudiziaria” e di una “corruzione tesa a rovesciare un primo ministro di destra a opera di interessi stranieri”.

L’Italia può considerarsi più fortunata perché un analogo tentativo di golpe giudiziario, negli anni Novanta che, di cui si è scritto sui media e che secondo alcune voci malevole era stato immaginato da magistrati di sinistra, per istituire, in luogo della Prima Repubblica, un Regime delle Toghe (non elette dal popolo, ma autodefinitesi “illuminate), sarebbe, invece, miseramente naufragato.

In realtà, però, l’uso politico della giustizia, sia pure a fini non golpistici, era stato presso che coevo alla nascita della Repubblica post-Resistenziale. Ma di esso si tratterà nella prossima nota.

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