La rottura delle relazioni tra noi e gli altri era già in atto prima del distanziamento sociale impostoci dal virus, la respiravamo nei bar, aleggiava nelle pause pranzo con i colleghi, strisciava nei rapporti familiari, negli incontri con gli amici.
Eravamo attratti ed ipnotizzati da piccoli ed affascinanti strumenti che ci collegavano ad un modo fantastico, un immaginario in cui potevamo essere quello che non siamo.
Adesso è diverso, non è più una scelta, stare lontani è l’unica condizione per sopravvivere al “mostro” che circola liberamente in uno spazio in cui noi gli abbiamo dato modo di circolare. Qualcuno, bucando gli schermi delle nostre coscienze addormentate, ci impone di non stringerci la mano, di non abbracciarci, di mantenere la distanza di sicurezza, di incontrare i “congiunti” e non gli amici.
Un cicaleccio, confuso e intollerabile, fatto di voci discordi, pareri che sembrano vaticini, numeri privi di dimostrazioni concrete, decreta la nostra “non vita”, ci separa dagli anziani, a volte vittime a volte untori, ci costringe a guardarci con sospetto, con occhi vuoti e spaventati, al di sopra delle mascherine.
Non abbiamo più volto, non abbiamo più identità, nella desolazione di strade vuote cerchiamo soltanto la strada di casa, la porta che ci farà sentire al sicuro dal nulla che ci circonda e ci atterrisce.
Dovevano capirlo che questo lungo sonno della ragione ci avrebbe resi schiavi e succubi. Ci sarà un risveglio?
Riusciremo a riappropriarci delle nostre identità cancellate, accetteremo l’idea che morte e vita sono due facce della stessa medaglia?
Siamo disposti a correre il rischio di vivere e convivere con la malattia, la fragilità, l’incertezza del futuro o lasceremo che vinca l’isteria dilagante?
Può la paura di un virus coartare le nostre menti fino consentire che si cancellino diritti e libertà inviolabili e farci precipitare in un baratro di miseria, disoccupazione e disperazione? Dipende da noi, ma il tempo incalza e potremmo già essere al punto di non ritorno.
Sara Spagnoletti