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Il coronavirus si è preso anche Luis Sepulveda che ha dato voce e dignità ai poveri, ai più umili

Lo scrittore Luis Sepulveda durante il secondo giorno di apertura della 32/a edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino presso l'Oval Lingotto, Torino, 10 maggio 2019 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Il coronavirus si è preso anche Luis Sepulveda lo scrittore cileno che ha saputo dare voce e dignità ai poveri, ai più umili

«Il sangue mapuche è forte» diceva sempre «nei secoli ha saputo resistere ai conquistatori spagnoli, ha difeso la sua regione, la Araucania, dal nuovo Stato cileno. In me scorre quel sangue». La madre Irma, ricordava, era di origine mapuche. Per questo diceva che era fatto per resistere alle prove anche le più dure. Quelle che la vita non gli avrebbe risparmiato. Stavolta però a Luis Sepúlveda, Lucho per tutti gli amici, la forza del sangue mapuche non è bastata ed il virus se l’è portato, in maniera vigliacca ed irriverente, con se a soli 70 anni. Sepulveda non aveva paura dei dittatori dell’America Latina né delle   multinazionali che avevano condannato i paesi del Cono Sud a una dipendenza economica che somigliava alla schiavitù, egli stava dalla parte degli oppressi, quelli che la legge dei padroni considerava banditi, fuorilegge.

E lui era nato fuorilegge, con «un mandato di cattura» che pendeva sulla testa di suo padre, José Sepúlveda, cuoco e comunista, che la famiglia di Irma aveva denunziato per «rapimento di minorenne e sequestro di persona». Così era nato a Ovalle, cittadina del Nord, in una camera d’albergo che certo, rideva, non era «un hotel cinque stelle». La sua vita era stata quella di un uomo in fuga, dal Cile di Pinochet (finito in carcere due volte, era stato liberato grazie ad Amnesty International) e dalle altre dittature del Sudamerica. Per approdare in Europa, ad Amburgo, pronto per il nuovo impegno con gli attivisti di Greenpeace in lotta contro i crimini dello sviluppo mondiale che stava distruggendo gli equilibri naturali.

In fuga, certo, ma senza perdere mai la grande vocazione di narratore che lo accompagnava fino da quando, giovanissimo, aveva pubblicato i primi racconti. Narrare, scrivere per lui è sempre stato un modo per difendere le idee, denunciare i soprusi e le infamie, ricordare i compagni caduti, gli esuli, gli indios dell’Amazzonia che un sedicente progresso condannava all’estinzione. Ed è la lezione degli indios, gli Shuar, popolazione che vive fra Perù ed Ecuador, presso cui Sepúlveda aveva soggiornato nei primi tempi dell’esilio, che ispira il primo romanzo scritto dopo molti anni, quel Vecchio che leggeva romanzi d’amore uscito in spagnolo quasi in sordina nel 1989, e poi, dopo la traduzione francese per le edizioni di Anne-Marie Métailié nel 1992, diventato un bestseller mondiale. Sono gli Shuar, infatti, che insegnano il rispetto per la natura, l’amore per la foresta, e resistono come possono agli avventurieri bianchi che invadono i loro territori, si aggiudicano illegalmente terreni che subito cominciano a disboscare.

Da quel momento Luis diviene uno fra gli scrittori più popolari in Europa, ricercato dai festival, letto da un pubblico di tutte le età. Come in Italia, dove con l’edizione del Vecchio (1993), Sepúlveda inizia la sua collaborazione con Guanda e la sua traduttrice Ilide Carmignani, che è durata ininterrottamente per oltre venticinque anni. Ogni sua apparizione — festival, presentazione di libri, premi letterari – raduna folle di appassionati lettori. Una volta, a Pontremoli dove concorreva al Bancarella (era da poco uscito La gabbianella, il suo titolo a oggi più venduto) era rincorso per le strade come fosse una rockstar. E la gente chiede firme con dediche personalizzate, che lui completa spesso con disegni come il gatto della Gabbianella. Nel 1986 perse la cittadinanza cilena (la riavrà solo nel 2017, durante il secondo mandato presidenziale di Michelle Bachelet), l’Italia che lo segue con grandissimo affetto diventa per lui il posto dove torna sempre più spesso.

Poi, nel 1997, prende una casa in Spagna, a Gijón, nelle Asturie; dopo una lunga separazione, è tornato in Italia  insieme con Carmen Yanez che aveva sposato nel 1971. A Gijón fonda il Festival della letteratura ibero-americana che si tiene ogni anno a maggio. Negli anni Novanta escono racconti autobiografici, pagine di diario, due romanzi importanti, Un nome da torero Diario di un killer sentimentale. È un decennio fortunato, segnato dal successo dilagante della Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996) a cui negli anni faranno seguito altre favole: Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico (2012), Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza (2013), Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (2018).

Ma in questi anni, dopo che Pinochet ha lasciato la presidenza (1990) pur continuando ad avere incarichi come capo dell’esercito e poi senatore a vita, lui e gli altri esuli chiedono giustizia per le vittime del golpe. Quando nell’ottobre del 1998 Pinochet viene arrestato a Londra su mandato internazionale per crimini contro l’umanità emesso dal giudice spagnolo Baltasar Garzón, Sepúlveda va in prima linea con articoli e interventi appassionati (saranno raccolti nel 2003 col titolo “Il generale e il giudice”). La battaglia legale va avanti fino al marzo del 2000, con l’Inghilterra che decide di negare l’estradizione in ragione delle precarie condizioni di salute dell’anziano generale. Questa, scrive, è la vittoria dell’infamia, e aggiunge il nome del premier britannico Tony Blair alla Enciclopedia dell’infamia. Una vita, quella di Sepúlveda, in cui letteratura e lotta politica sono state sempre unite. Nell’impegno di far sì che la memoria di chi fu eliminato dalla dittatura non sia cancellata. Alcuni, diceva, non hanno nemmeno una tomba, che almeno la letteratura serva a tener vivo il loro ricordo.

Da Luis Sepúlveda, “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”

“Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contradetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo i tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.“

                                                                       Marcario Giacomo

                                             Comitato di Direzione de “Il Corriere Nazionale”

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