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“ Tra sentire e sperare, Un flebile equilibrio tra l’essere cittadino o miserabile”

Editoriale

A cura di Giuseppe Trizzino

Ogni tanto si deve avere il coraggio di guardarsi allo specchio, alzare lo sguardo nei propri occhi e provare a sentirsi orgogliosi o, miserabili.

Scriviamolo chiaramente, Noi non possiamo definirci cittadini civili, partecipi, uniti ed esemplari.

Noi siamo quelli che lasciamo fare agli altri, purché per noi ci sia anche una piccola briciola di promessa.

E si chiama speranza.

Noi evitiamo di prendere parte e di sbilanciarci perché quel problema non è il nostro.

E si dice codardia.

Noi evitiamo di pretendere i diritti perché abbiamo l’amico che ci sostiene.

Si scrive ruffiano.

A noi non è mancato mai nulla, o forse sì ?.

Sì, perché questo non è il sentire d’una nazione ma solo l’accorgersi d’essere nessuno, di non aver saputo far nulla e di non dovere niente agli altri, detto in confidenza.

Noi stiamo sprecando una vita, bruciando una generazione e lasciando morire non solo un paese ma anche una speranza.

La stessa, unica e condivisa speranza che sembra a portata di mano ma mai raggiungibile.

Noi siamo cittadini del profondo medioevo, servitori di falsi vassalli.

Noi non abbiamo mai avuto nulla tra le mani, nemmeno l’illusione di poter giungere a qualcosa.

E se oggi, tutto va in malora, beh, chi ci rappresenta, dalle istituzioni ai nostri rappresentanti, altro non è che il riflesso del nostro volto e della nostra intima coscienza.

Insignificante, inconcludente, insensibile e senza certezze, un anonimo volto.

Ed è per questo che, ogni tanto allo specchio ci si deve avere il coraggio di guardarsi, fosse anche solo per il piacere di sputarsi in faccia.

Per tutto quello che non abbiamo saputo restituire alla nostra Nazione ed alla sua società che ci ha cresciuti.

Per avere vissuto senza nessuno stimolo ed orgoglio.

Per non avere preteso dei diritti per i nostri figli.

Per avere abbandonato i nostri nonni e per non avere onorato il sacrificio di tanti che hanno donato la vita per quest’assurda terra, chiamata Italia.

Io amo la mia nazione e la amo tutta, così com’è, da Treviso a Palermo.

Talmente la amo che, ho tolto tutti gli specchi da casa mia.

Non ho il coraggio di guardarla ma solo di sentirla.

Ma forse la verità è che non sono affatto orgoglioso di me, nella misura in cui sono costretto a scrivere per esprimere qualcosa che sento dentro, anziché alzarmi dalla sedia e pretendere, sbilanciarmi e gridare, … che questo Paese è il mio paese e mi appartiene per grazia divina.

Fare il cittadino insomma.

Chiunque ha il dovere di essere coscienzioso e responsabile così come ha il sacrosanto diritto di essere libero di partecipare alla vita del proprio paese e del proprio domani.

Un orologio ha dei meccanismi complessi che in armonia tra loro generano un movimento ordinato.

Quando i meccanismi non si muovono armonicamente, allora esso rimarrà solo un bell’oggetto, ma nulla di più.

Se siamo una nazione, allora i sentimenti dovranno pur converge una volta.

E quando accadrà, questi si alzeranno sino a sommergere le orde nascoste in ogni angolo delle Istituzioni e della burocrazia.

Se invece rimaniamo solo dei coinquilini, allora torneremo a sorridere come gli imbecilli tra qualche tempo.

È questo flebile equilibrio tra il sentire e sperare che nella storia ha segnato le differenze, tra l’essere cittadini o, rimanere miserabili.

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