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60 anni del Partito Liberale Italiano raccontata da chi l’ha vissuta Stefano de Luca

Ho sempre ritenuto che il posto dei liberali di tutti gli orientamenti sia nel Partito Liberale Italiano e non ho cambiato idea. Ovviamente non penserei mai ad un obbligo se non morale e forse di opportunità. Ognuno, principalmente ogni liberale, può decidere di militare dove preferisce o di non militare in alcun partito o movimento. Mi preme sottolineare che ho sempre pensato che un partito liberale dove non siano presenti le varie sfumature di una ricca produzione di pensiero con almeno tre secoli di storia, talvolta con posizioni anche molto contrastanti, finisce con l’apparire come mutilato.

Mi iscrissi al PLI nel 1959 ancora con i calzoni corti e subito mostrai di preferire la corrente di sinistra alla quale mi sentivo più affine. Tuttavia, poco dopo, ebbi la delusione di rimanere praticamente solo a causa di una delle tante scissioni a sinistra, che, particolarmente a Palermo, fu molto dolorosa. Quasi tutti gli esponenti della componente nella quale militavo, seguirono l’Ingegner Domenico La Cavera, allora Presidente di Sicindustria, il quale fu uno dei principali artefici e sostenitori della cosiddetta operazione Milazzo, che diede vita ad un anomalo e bizzarro Governo alla Regione Siciliana, cui parteciparono insieme comunisti e missini. Per un lungo periodo di tempo quindi finii praticamente con l’essere il punto di riferimento della sinistra liberale siciliana, costituita principalmente da appartenenti alla Gioventù Liberale Italiana. Seguivo comunque sempre le iniziative degli esponenti che avevano abbandonato il Partito, di cui facevano parte personaggi di grande qualità, come Carandini e Villabruna, che fondarono la prima edizione del Partito Radicale ed ebbero un insuccesso clamoroso, alleati con il Partito Repubblicano italiano alle elezioni politiche del 1959. Leggevo settimanalmente e con grande passione giovanile “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio, che raccoglieva le idee della grande corrente intellettuale liberale progressista. Il giornale era, da tutti apprezzato per lo spessore culturale delle grandi firme di coloro che vi scrivevano, (dallo stesso Pannunzio a Carandini, da Ernesto Rossi a Giovanni Spadolini, da Leonardo Sciascia a Leone Cattani, da Ennio Flaiano a Vittorio De Caprariis, da Luigi Einaudi con lo pseudonimo di Manlio Magini a Panfilo Gentile e molti, molti altri) ma rappresentava una posizione sostanzialmente minoritaria nel perimetro di una sinistra italiana dominata in modo autoritario dal pensiero unico comunista. Con grande dolore per chi come me lo considerava fonte di ispirazione politica e culturale, il settimanale fu presto condannato alla chiusura, avvenuta nel 1966. Intanto nel PLI dominava la figura di Giovanni Malagodi, allora leader incontrastato, che, nella stagione dei primi governi di centro sinistra, si pose come agguerrito e tenace oppositore. Molte delle sue battaglie erano giuste, come quella contro l’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario, (in cui ricorse persino all’ostruzionismo parlamentare) lo Statuto dei lavoratori, l’Istituzione della Cassa integrazione e l’introduzione della infelice legge sui punti di contingenza, (poi abolita grazie al coraggioso referendum craxiano) la Riforma sanitaria, tutte leggi che, insieme alla espansione a dismisura di investimenti quasi tutti fallimentari nelle Partecipazioni Statali, furono effettivamente alla base del dissesto del bilancio dello Stato e della creazione di un immenso debito pubblico, sulle cui cause reali sono state dette molte falsità e non si è mai effettuata una seria ed approfondita indagine.

L’errore di Malagodi, forse perché non aveva un’opposizione di sinistra nel partito in grado di stimolarlo, fu quello di non comprendere che il PSI durante quegli anni, principalmente dopo la svolta del Midas, aveva cambiato pelle e che la linea politica da battere era quella del compromesso tra democristiani e comunisti, cercando di consolidare un’alleanza tra partiti laici, liberali e socialisti, quello che fu poi chiamato il Lib Lab, ma che arrivò con oltre dieci anni di ritardo, quando il PLI si era dissanguato, rischiando nel 1976 l’estinzione.

Sin dal 1966 un gruppo, principalmente della GLI, con a capo Salvatore Valitutti e Pompeo Biondi aveva tentato di creare una debole opposizione al dominio malagodiano, dando vita alla corrente di “Presenza Liberale”, ma era stato umiliato e sconfitto al Congresso Nazionale di quell’anno. Successivamente nel 1968 a Lecce fu eletto deputato Ennio Bonea, che divenne il leader della corrente, la quale continuò a portare avanti la sua critica per circa un decennio, lentamente rafforzandosi, con adesioni che principalmente derivavano dalla allora vivacissima GLI. Dopo la sconfitta elettorale del 1976, venne presa la decisione di unificarsi con l’altra componente di opposizione di “Rinnovamento”,  nata successivamente, per dar vita a “Democrazia Liberale”, che riuscì a portare alla Segreteria Valerio Zanone e lentamente a correggere la linea del partito, fino alla partecipazione, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, ai governi di pentapartito, che guidarono il Paese fino al 1994,  quando un autentico golpe mediatico giudiziario produsse il crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Nel febbraio di quell’anno fu presa la sciagurata decisione di sciogliere il Partito Liberale, con la mia strenua opposizione, unico di tutto il gruppo dirigente, nonostante avessi aggregato oltre il quaranta per cento dei delegati al Congresso. Gli anni successivi videro la maggior parte dei liberali lasciarsi affascinare dal messaggio berlusconiano, che poco o nulla aveva di effettivamente liberale, se non qualche parola d’ordine ed un programma con molti contenuti condivisibili, ma rimasto solo sulla carta, che era stato scritto da Antonio Martino e Giuliano Urbani. Nel 1997, quando con determinazione decidemmo di ricostituire il PLI, insieme a Carla Martino, Gianfranco Ciaurro e Attilio Bastianini, che provenivano come me dalla sinistra del partito, trovammo l’adesione di Egidio Sterpa, il quale aveva sempre rappresentato la componente di destra. Il congresso fondativo all’Ergife fu un successo, tanto da indurre Silvio Berlusconi, da un lato ad aprire con noi un’interlocuzione e dall’altro, come è nel suo stile, a cercare di dividerci. Riuscì nel proprio intento convincendo Sterpa ad abbandonare il Partito e candidarsi alla Camera nel 2001 con Forza Italia, mentre Zanone aveva scelto di aderire al Partito Democratico, che lo elesse al Senato. Quello fu il momento peggiore della diaspora liberale. Il Congresso del 2004 rappresentò invece un nuovo momento positivo perché riuscì a ricomporre componenti, come quella che faceva capo a Renato Altissimo, che si erano lasciate illudere dalla sirena berlusconiana, insieme alla destra liberale di Giuseppe Basini. Ancora una volta fummo penalizzati alle elezioni del 2006 dalla slealtà del capo di Forza Italia, che, contravvenendo ai patti solennemente ribaditi durante un Consiglio Nazionale liberale al Capranichetta, dimenticò di assicurare al PLI il diritto di tribuna che aveva garantito, grazie anche all’autorevole mediazione di Giulio Tremonti e perdendo le elezioni per soli ventiquattromila voti. Nel successivo 2008 i liberali dimostrarono di valere molto più di quanto era mancato due anni prima per vincere le elezioni, presentandosi da soli fuori dagli schieramenti e superando largamente i centomila voti, nonostante l’assenza delle proprie liste nelle importanti circoscrizioni di Milano e della Campania. Andare avanti in condizioni di autonomia extraparlamentare dagli schieramenti fu molto difficile, tanto che, nonostante la ovvia diffidenza, al Congresso del 2017 fu deciso di scegliere la coalizione del centro destra. La solita doppiezza di Forza Italia fece si che soltanto la Lega offrisse ai liberali delle candidature, che, tranne un collegio assolutamente perdente, furono per collegi proporzionali sotto il simbolo del carroccio. Personalmente avevo deciso di non accettare e lo avevo notificato per iscritto. Gli altri tre candidati, nel corso di una riunione a casa mia ed in collegamento telefonico con Giancarlo Giorgetti, ebbero la meglio sulla mia contrarietà, che avrebbe comportato il dissolvimento del PLI dal momento che loro non intendevano rinunciare alle rispettive candidature. Per la sopravvivenza del partito, e solo per quello, decisi di superare la mia riluttanza, ma di fatto non feci campagna elettorale, anche perché, non soltanto mi veniva difficile chiedere voti per quel simbolo, ma sul territorio avevo trovato la riluttanza dei liberali a votarlo e la sorda, ma determinata, ostilità dei leghisti. Nonostante questo non fui eletto per pochissimi voti e fu meglio così, perché, come avevo detto a Giorgetti, mai mi sarei iscritto al Gruppo parlamentare della Lega, mentre mi sarei ovviamente collocato nel Gruppo Misto, dichiarando di rappresentare il PLI, e così facendo, avrei salvato il diritto di quei quattro o cinquemila cittadini italiani liberali di poter continuare ad indicare, come avevano fatto negli anni precedenti, nelle loro dichiarazioni dei redditi il PLI come destinatario del due per mille di contribuzione volontaria. I due parlamentari eletti non vollero farlo ed accettarono l’imposizione della Lega di aderire ai Gruppi del Carroccio. Fu più grave il comportamento della senatrice, perché, per il regolamento del Senato, bastava una sola adesione per conservare il diritto a ricevere la quota volontaria dei contribuenti. Alla Camera invece ne sarebbero stati necessari tre. La senatrice, che intanto aveva deciso di candidarsi alle europee, venne espulsa, mentre il deputato scelse la via delle dimissioni e l’annuncio, non ancora attuato in mancanza, credo, dell’autorizzazione della Lega, di costituire un partito di destra liberale.

Nonostante le assenze determinate dal timore per il contagio del corona virus, è stato tenuto nei giorni 28/29 febbraio e 1 marzo un bel Congresso del PLI, che ha ribadito la determinazione dei liberali italiani di voler continuare l’avventura politica del PLI, avvicinandosi il centenario della sua prima fondazione a Bologna nel 1922, dopo una lunga fase in cui aveva dominato la politica italiana, anche senza assumere la forma di partito, con statisti del calibro di Cavour e Giolitti, ora con la prevalenza della corrente che fu chiamata destra storica, ora di quella più progressista. Non posso comunque non rilevare che troppi liberali si trovano dispersi e divisi, chi sostenendo posizioni più nettamente di sinistra, chi collocato su una linea più conservatrice legata alla coalizione di centro destra. Si tratta di posizioni tutte legittime e rispettabili, che tuttavia dovrebbero animare un dibattito, anche aspro, secondo la tradizione liberale, ma nel PLI. Fino a quando il mondo liberale resterà diviso, non sarà possibile raggiungere la massa critica necessaria ad ottenere una rappresentanza parlamentare e le pur variegate posizioni liberali, non riusciranno ad avere il posto che meritano in un’Italia che ne avrebbe grande bisogno, perché dominata dall’antipolitica, dal massimalismo neo cattocomunista e da un conservatorismo sovranista, tutte posizioni con tratti pericolosamente autoritari.

Stefano de Luca, Il Presidente PLI

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