Principale Arte, Cultura & Società Maria Pia Latorre –  la terra di «dove», nella poesia il teatro

Maria Pia Latorre –  la terra di «dove», nella poesia il teatro

È costruita così l’ultima opera poetica di Daniele Giancane, come una pièce teatrale in cinque scene. Vi è una chiara progettazione visionaria d’insieme nell’architettura del lavoro, ambientato in un metaforico quanto realistico mare, dove s’intravedono veleggiare cinque navi, governate da altrettanti comandanti . Ogni nave è un macrocosmo, una profezia che preavverte e disegna scenari perché “quel mare… nasconde un segreto”.

La prima scena è introdotta da un comandante rude ma anche tenero che ha ben compreso che “la storia srotola il suo tappeto senza sosta” e si sforza di interpretare i segni dei tempi, una sorta di novello Virgilio, conclamata metafora della ragione, per cui ben si confa l’attributo ‘tenero’.

Il comandante (allegoria dell’eroe peregrinante, che tanta fortuna ha avuto in epoca romantica) s’interroga sul vivere sociale dell’umanità, dai tempi della preistoria con i primi gruppi sociali fino alla nascita delle nazioni, passando per le diverse forme di organizzazione sociale che si sono sperimentate nella storia. Ogni nazione si è costruita con il sacrificio di interi popoli e con la provvidenziale presenza di eroi lungimiranti e ‘invincibili’, uomini che hanno saputo deviare il corso della storia, “stelle fulgide e immortali dell’ideale di nazione”. Ve n’è una carrellata, dal boliviano Simon Bolivar, all’ungherese Sandor Petofi, al messicano Pancho Villa, all’angolano Agostino Neto, al sudafricano Nelson Mandela, al turco Ataturk fino ai patrioti italiani risorgimentali, da Garibaldi a Pisacane a Mazzini. Qui il Poeta coglie la grandezza degli ideali nazionali, ne esalta i valori e le conquiste ma, con l’acume e la sensibilità propria di chi vive col cuore aperto ed esposto ad ogni cambiamento, avverte che “la storia è una macina/ che travolge ogni cosa,/ che muta e manda in mille pezzi/ le accumulate certezze”. Egli coglie anzitempo i cambiamenti e, con grande gesto di compassione verso l’umanità, comprende che gli uomini hanno bisogno di sperare, di credere in un progetto futuro, perciò ottimisticamente apre il verso ad un auspicio positivo: “(la storia) che sbriciola e nel contempo edifica,/ lungo l’inesauribile/ movimento del tempo”. Si chiude così la prima scena, un prologo modellato sugli albori dell’umanità e che nella sua parte conclusiva invita ad andare avanti, ad aver fiducia nell’uomo, forse immaginando la cancellazione di ogni confine e di ogni distinzione tra popoli. 

Si apre la seconda scena su un bastimento perso in un oceano silenzioso, e anche qui un comandante intravede tra la nebbia qualcosa, una nuova profezia. È un paesaggio distopico dove un’umanità moribonda ed errabonda si trascina stancamente verso la fine. Scarseggiano le risorse, le città sono cumuli di macerie, il pianeta è al collasso. La civiltà regredisce in una nuova età primitiva, col ritorno alla vita nelle caverne, si perde l’uso della “parola arrotondata” (quant’è carico questo attributo!, da sovrastarne il significante) per esprimersi in suoni gutturali. Sono sempre il dolore e la pietà ad accompagnare la chiusura del quadro finale: “(il comandante) si mette le mani sul viso/ per non guardare più quella terribile visione/ e spera piangendo/ che sia solo un incubo/ causato dalla stanchezza e il sonno mancante/ e una mente che inclina la pessimismo”. Ma, in realtà, tutti sappiamo bene che non si tratta di pessimismo, ed anche in questo delicato passaggio si può apprezzare l’ostinata e protettiva pietas del poeta, che attribuisce a sè la visione pessimistica e di negativa interpretazione della realtà.

La terza scena affronta il tema trasversale della libertà, oggetto di ricerca e studio sin dagli albori delle civiltà, dalla Repubblica di Platone, a La città del sole di Campanella, da 1984, di Orwell a Fahrenheit 451, di Bradbury e, successivamente, del connesso pensiero unico, su cui si fa oggi un gran parlare.  L’intellettuale Marcello Veneziani propone di nominarlo, anziché pensiero unico,  “potere che uniforma”,  come espressione di un probabile ‘nuovo ordine mondiale’, non costituito di eminenze grigie, come si potrebbe ingenuamente pensare, bensì dalla graduale sostituzione sociale dei mezzi al posto dei fini, dello strumentale al posto del sostanziale, e della relativa regressione degli uomini a meri strumenti nell’ingranaggio tecnologico, tra inasprimenti nel dibattito sociale con derive populiste e sovraniste create ad hoc, tra tecnocrazia e tecnodipendenza che impongono ritmi e direzione, per cui tutto ciò costituisce la vera e concreta dittatura del terzo millennio. La scena ben disegna il ruolo dei media e degli organi di censura; la presenza del grande Bibliotecario è un affondo immaginifico formidabile, figura terrifica che imprime la bollinatura ai libri e ne sancisce la loro ammissibilità alla lettura. Gli ultimi quattro versi di chiusura ritraggono una vivida scena in movimento, come se fossimo sugli assi di un palcoscenico teatrale e ci sembra di vederlo distintamente il comandante basso e calvo, chino su se stesso, che scompare nel ventre della nave, come nella Tempesta shakespeariana; e forse si starà chiedendo: ma davvero “siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”?

La quarta scena riprende i temi delle migrazioni e della globalizzazione. Il pianeta è appellato come terra “delle divisioni e dell’apartheid”, e ogni popolo, in base al colore della pelle, vive in un angolo di mondo ad esso destinato; sono permessi solo pochi scambi, “ma la polizia sorveglia”. Tutta la sequenza scenica è impregnata di forte ironia, con l’immediatezza della battuta umoristica, ed anche il comandante è tratteggiato con i segni distintivi dell’arguzia: “Pensa così il quarto comandante,/ accarezzandosi il mento/ nervosamente”.

Ma comincia a proporsi/svelarsi un mistero identitario: sono comandanti diversi quelli de La terra di «Dove», o è lo stesso comandante “nel mutare delle stagioni e degli orari”?, tema, questo, caro alla letteratura postmoderna.

La quinta ed ultima scena disegna un pianeta dove le donne “che finalmente hanno preso il potere,/ dopo millenni di potere maschile” sono le vere protagoniste (non come ci vogliono far credere oggi!). Anche in questo ultimo pamphlet sono messi in atto tutti i meccanismi dell’umorismo, dal capovolgimento dei ruoli all’esagerazione, fino all’immagine finale in cui il comandante “torna in cabina quasi correndo”. L’ironia, da Socrate in poi, ci aiuta a vivere; consideriamo tutta l’ironia contenuta in quest’opera un dono del Poeta per sostenerci in questi tempi bui.

La terra di «Dove», nella sua architettura, riprende un motivo molto caro ai Romantici, basti ricordare La ballata del vecchio marinaio, di William Wordsworth, considerato il fondatore del Romanticismo inglese; e subito sale alla mente il famoso Viandante sul mare di nebbia, di Friedrich, che forse il Nostro ha subliminalmente richiamato nei cinque comandanti ritti sulle tolde delle rispettive navi. Probabilmente in comune con gli autori romantici vi è un’aspirazione immaginaria e utopica che vuol sostenere il superamento dell’impasse globale, dove “la poesia aspira a unificare e riconciliare, proprio in quanto trasgressione di un reale negativo, gli elementi divisi, alienati e conflittuali, di un universo mentale e sociale[1]. Anche oggi, come in età romantica, ci troviamo a dover affrontare in modo impellente il dualismo natura/cultura; tutta la politica ambientalista è una risposta univoca a tale cogente questione. Possiamo, per questo, parlare di neoromanticismo? Non intendo che sia da considerare, questo, un mero atteggiamento anacronistico, ma una possibile soluzione alle tante crisi che ci troviamo ad affrontare ogni giorno; del resto, le più recenti correnti filosofiche, dalla decrescita felice al principio semplicità, non si muovono in tal senso?

Un’altra immagine psichica probabilmente celata dietro la nitida rappresentazione dei ‘comandanti’ è la necessità di ‘navigare a vista’, modalità che accompagna il vivere sociale e civile di questo inizio del terzo millennio. Certamente La terra di «Dove» è poesia epica e politica, nella quale l’Autore assume su di sé le responsabilità dell’inadeguatezza del vivere e della necessità del cambiamento; ha la lungimiranza del ‘comandante’, che gli viene da una vita spartita tra impegno civile e promozione culturale, osservazione del mondo e riflessione personale, studio e produzione.

Auspichiamo che il testo poetico sia letto da più e più, non solo per la bellezza dei versi ma anche perché è un agile strumento di riflessione personale.

[1]     Wordsworth – Coleridge, Ballate liriche, Mondadori, Milano, 1979, p. 20.

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