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Il caso Crespi, una storia italiana

È successo ad Ambrogio Crespi, ma può succedere a tutti. Svegliarsi una mattina e perdere di colpo la propria identità di cittadino perbene, professionista stimato, padre e marito modello. Essere accusati, condannati, costretti a detenzione preventiva senza una vera e propria prova. Insomma, di andare al tappeto senza riuscire nemmeno a capire da dove arrivino i pugni del knock-out. Ambrogio, regista ed esperto di comunicazione, non ha fatto niente. E le prove palesano la sua totale estraneità ai fatti. Ma viene accusato, in base ad intercettazioni ambientali, d’aver procacciato voti alla ‘ndrangheta nel nord Italia (patto di scambio politico-mafioso), per poi scoprire da una perizia che il suo principale accusatore soffre di gravi disturbi psichici “istrionici e narcisistici”. 200 giorni di carcere, dei quali 65 in isolamento, prima a Regina Coeli poi ad Opera, perché un uomo giudicato instabile lo cita tre volte nelle intercettazioni,verosimilmente per accreditarsi facendosi scudo del suo nome noto negli ambienti milanesi, e un altro accusatore lo contatta per chiedergli aiuto (negato) per una sua candidata.

In sostanza, una condanna in primo grado a 12 anni di carcere – ridotta a 6 in secondo grado e in attesa di sentenza di Cassazione – frutto del credito di cui godono le parole di un millantatore reo confesso e compulsivo che, in un giorno come un altro, trasformano un uomo rispettabile e incensurato in un puparo senza scrupoli.Quello che colpisce davvero di Ambrogio, che quegli ambienti mafiosi non ha nemmeno sfiorato, è la sua forza d’animo che lo accompagna allora come ora lungo tutta la vicenda, consentendogli azioni e scelte che pochissimi, nelle sue condizioni, avrebbero intrapreso. Azioni che vanno oltre i flash mob, i sit-in, le petizioni avviate dalla sua famiglia con l’endorsement spontaneo e bipartisan dell’opinione pubblica e del giornalismo italiano, oltre lo sciopero della fame e della sete di suo fratello, oltre le battaglie #CrespiLibero e #IoStoConAmbrogiodi Marco Pannella e Rita Bernardini volte a scongiurare un nuovo caso Tortora, con il quale ha evidenti e inquietanti analogie.Ambrogio, ancora detenuto, arriva a rifiutare la candidatura in Parlamento, garanzia di scarcerazione, che gli viene offerta dall’allora governatore del Lazio, Storace (“Sono entrato da cittadino, uscirò da cittadino, la mia innocenza non è discutibile e nessuna immunità può regolarla”, sono le sue parole) e, tornato in libertà, riprende in mano con coraggio il suo percorso artistico con produzioni “scomode” e impegnate a mettere in luce i nodi della giustizia e della libertà.Quelli a lui, da sempre, più cari.Perché Ambrogio non ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi,tanto da raccontare.

E parte dal docufilmEnzo Tortora, una ferita italiana,per proseguire con Capitano Ultimo, le ali del falco insieme a Raoul Bova e al colonnello De Caprio, con il documentario sulla Terra dei fuochiMalaterra, con Gigi D’Alessio, Sandro Ruotolo e Don Patriciello, e con ildocufilm su giovani e droga, Giorgia Vive, tratto dalla storia vera di Giorgia Benusiglio, che a 17 anni rischiò di morire per mezza pasticca di ecstasy, patrocinatodall’Anm, Associazione nazionale magistrati. Ultimi ma non ultimi, Spes contra Spem, liberi dentro- docufilm che racconta l’ergastolo, che viene presentato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando (che lo definisce “un manifesto contro la mafia”) al Festival di Venezia nel 2016 e portato nelle carceri italiane dal capo della procura di Napoli, Giovanni Melillo- e Generale Mori. Un’Italia a testa alta, un ritratto di un uomo di Stato che attraversa 50 anni di storia del nostro Paese. In Spes contra Spem, manifesto contro la criminalità, compare tutta la forza dell’uomo e del regista nel descrivere il senso della pena e della sua espiazione. La vita in carcere è scritta dai condannati stessi e raccontata senza buonismo né posizioni ideologiche: il film fa emergere anche che l’istituzione-carcere può rendere possibile il cambiamento e la riconversione di persone detenute in persone autenticamente libere. Ambrogio Crespi non smette mai di dichiararsi innocente e di urlare la propria verità, è vero e giusto. Ma in nessun momento si dichiara vittima di un accanimento giudiziario, né di un caso di malagiustizia. Anche di fronte ai sette mesi di ingiusta detenzione, rimane il Capitano dell’anima sua. Giustifica persino il suo arresto (“un errore”), avvenuto all’alba di fronte alla moglie, ai figli, al fratello che è costretto ad attenderlo per un’ora sulle scale prima di poterlo finalmente abbracciare, ma in manette. Ciò che invece fa fatica a comprendere e giustificare è il tempo che deve ancora passare prima che venga dichiarato estraneo alla vicenda di questo processo basato, come tufo sull’argilla, su presunzione di reati.

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