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La morte di un filosofo

Emanuele Severino il filosofo controcorrente tra Occidente greco e culture tedesche

Pierfranco Bruni

Un filosofo che ha fatto del senso di infinito una “eternità” in una epistemologia in cui il linguaggio è diventato i linguaggi di una esistenza: “Eterni sono ogni nostro sentimento e pensiero”. Ma parimenti dirà: “La morte è l’assentarsi dell’eterno”.

Non fu mai il filosofo della prassi. Sempre dentro un circuito di idee il cui senso attrae un sistema in cui il nichilismo diventa umanesimo, sia sul piano filosofico e letterario che nell’ambito della ricerca antropologica. Per Emanuele Severino i due capisaldi all’interno del Novecento filosofico restano Nietzsche e Heidegger. Due pilastri in cui il senso dell’esistenzialismo trapassa il modello tragico per inserirsi in un contesto in cui la ricerca, o il dettato di una cultura dell’umanesimo, diventa proiezione di uno sviluppo non solo filosofico ma culturale nella sua complessità. Grazie a questi due filosofi, Severino è riuscito a penetrare il sottofondo del mondo greco-ellenico recuperando le trame con le quali creare una ragnatela intorno al concetto di filosofia e di letteratura stessa.

Severino è quel filosofo che ha trattato in modo peculiare la figura e l’opera di Leopardi, in termini prettamente esistenziali e non nichilistici. Il Leopardi della scommessa filosofica è nello Zibaldone e nelle Operette morali, dove Severino rinviene quel senso della filosofia nella visione dell’infinito. Quell’infinito forte che diventa il superamento della siepe.

Severino discutendo di Leopardi dirà con molta chiarezza: “Tutti avevano capito che Leopardi era un genio: lo sapeva molto bene Nietzsche, lo sapeva Schopenhauer, lo sapeva anche Wagner; e certamente, per quanto riguarda la cultura italiana, De Sanctis se n’era ampiamente accorto, e si era accorto anche dell’importanza filosofica di Leopardi. E la rivalutazione alla quale è andato incontro il pensiero filosofico di Leopardi negli ultimi tempi è consistente. Però siamo ancora lontani dal comprendere la potenza eccezionale di questo pensatore, tanto radicale da poter far sostenere legittimamente la tesi, che da parte mia da tempo sostengo, che si tratta del maggiore pensatore della filosofia contemporanea. Cioè di colui che in modo anticipato e radicale pone le basi della distruzione della tradizione occidentale, quella distruzione che poi sarà sviluppata, ma non resa più radicale, dai grandi pensatori del nostro tempo: da Nietzsche, a Wittgenstein, a Heidegger”.

Nei suoi scritti su Leopardi, Severino porta sulla scena un intreccio che vede interessare la filosofia in senso complessivo così come l’impronta della letteratura con la quale è possibile fare filosofia e viceversa. Tutto questo nasce alle falde di Parmenide, di Eraclito. Alle falde di quella cultura greca e saffica in cui l’Ultimo canto di Saffo di Leopardi diventa per Severino il canto ultimo della tragedia.

Scriverà: “La posizione di Parmenide è singolare perché è anche il punto di maggiore contatto con l’Oriente.[…] La soluzione radicale di Parmenide è questa: il divenire non minaccia più, non può essere nocivo perché non esiste. […] Tutto l’angosciante, tutto il terribile, tutto l’orrendo del mondo è illusione; questo è il senso della doxa di Parmenide. Ebbene questa è anche la strada percorsa dall’Oriente: i Veda, le Upanishad, la ripresa buddista del bramanesimo sono tutti grandi motivi che convergono su questo punto: l’uomo è infelice perché non sa di essere felice, perché non sa che il dolore è al di fuori di lui, e che lui è un puro sguardo che non è contaminato dal dolore che gli passa innanzi, così come lo specchio non è contaminato dall’immagine che si riflette in esso…”.

Ancora: “Ma la concordanza di Bruno con Parmenide è insieme concordanza con Eraclito, per il quale, ricorda Bruno, tutte le cose sono Uno. Proprio mentre l’epistéme[11] sta per abbandonare la fiducia nella capacità immediata del pensiero di cogliere il senso più profondo della verità, quella fiducia trova nella filosofia di Bruno una della sue espressioni più potenti e grandiose”.

Ritorna spesso a Nietzsche e a Heidegger. Una scommessa importante per un autore forte, pesante come Severino in cui il senso del tempo non è trasformazione dello spazio, bensì rilettura di una visione profondamente radicata nella metafisica. Se dovessi creare una “prassi“, da questo punto di vista, direi che Severino, dopo Maria Zambrano, è l’ultimo filosofo in cui la metafisica diviene esistenza e in cui l’esistenza è possibile recepirla e catturarla solo grazie alla metafisica.

È questo il dato di fondo. Si va sempre verso il sapere dell’anima – per dirla come la Zambrano –  e, andando verso il sapere dell’anima, Severino ha recuperato la visione di Zarathustra così come quella profonda dell’essere tempo di Heidegger. In questi due percorsi si è intavolato un discorso ontologico in cui la forza di questa sicurezza della speranza e dell’attesa è divenuta magistralmente liricità del crollo della caduta.

Severino va oltre la caduta camusiana. Oltre il senso dell’uomo in rivolta, del ribelle, per addentrarsi in quell’atmosfera in cui il linguaggio filosofico è confronto costante con l’ontologia dell’anima. Ecco perché il sapere dell’anima è la saggezza di conoscere, non più e soltanto la storia, bensì il tempo. È Severino che osserva: “Quando muore un grande Dio, accadono nell’uomo mutamenti profondi. A partire dall’Ottocento incomincia l’agonia del Dio dell’intera tradizione occidentale. Dapprima muore nella cultura; oggi è quasi dimenticato dalle masse – anche se ogni tramonto ha le sue luci, per le quali si può parlare, oggi, ad esempio, di una sorta di ritorno della dimensione religiosa”.

Il confronto tra Heidegger e Zambrano è forte. Uscire dal bosco significa anche entrare nel tempo. In quel tempo che rende la parola immortale. La prassi stessa rende tutto mortale poiché si confronta con la ragione. Severino si allontana da questo concetto della ragione, come pragmatica della conoscenza, penetrando il sottosuolo dostoevskiano. Quel sottosuolo della consapevolezza di essere coscienza. Essere coscienza è la forza e la convinzione che oltre ogni etica della storia esiste l’estetica della filosofia. Con Severino si entra anche in un altro campo, che non è meta-antropologico, ma profondamente radicato nell’antropologia della filosofia, perché la conoscenza del peggio – come avrebbe detto Sgalambro – è la consapevolezza di vivere in una civiltà in cui il peggio si tocca quotidianamente. Una questione fenomenologica. Da questo punto di vista ritengo che la fenomenologia del tempo abbia toccato i parametri di una dimensione che esula da qualsiasi forma onirica per incentrarsi nella visione della circolarità del tempo.

L’altro filosofo che ha puntato l’obiettivo sulla dimensione metafisica del tempo è Masullo. Un maestro. In Storia di un’idea (1980), pubblicato su Metafisica, Masullo si addentra nel modello stratosferico della coscienza come conoscenza. Anche Severino affonda le sue radici e il suo linguaggio nella consapevolezza, non della ragione, ma del sapere. Della saggezza. Il mondo greco si confronta proprio con la saggezza. In Severino il mondo greco diventa l’alter ego di se stesso perché giunge a Nietzsche mediante la conoscenza della tragedia. La nascita della tragedia di Nietzsche è la verità ricercata e la verità trovata. Due differenti aspetti: la verità cercata e la verità trovata. Un senso di assoluto, di assolvenza e dissolvenza della ragione che lo conduce a una dimensione del restare all’interno della clessidra, all’interno della visione magistrale di una filosofia che va oltre la dimensione della forzatura etica sartriana, oltre la rivolta di Camus per approdare a una sua concezione di parola e di linguaggio.

Non deve stupire che Severino sia un filosofo nella modernità della contemporaneità. Si è confrontato con la parola attraverso la canzone, le linee e i riferimenti di Sgalambro il quale si è lasciato catturare dalla parola di Battiato. Severino trova tutto questo non nell’essere della logica, ma nell’assenza della logica che rinviene nel Leopardi della ricordanza e della rimembranza che trova nella festa, il popolare del tempo che diviene elemento ancestrale di un “dire” e di un “essere” e non di un “avere” e di un “concretizzare”. Per il filosofo Emanuele Severino il dire e l’essere è il concepire penetrando il senso e l’orizzonte della tradizione. Non poteva essere diversamente. Una tradizione che si innova partendo proprio dal concetto greco che coniuga il contesto di Eraclito e il senso di morte di Seneca.

Il tempo si misura sempre nel senso di morte. Questo è il concetto forte e basilare. Severino non poteva fare a meno di Seneca e della contemporaneità di Heidegger perché quell’essere tempo di Heidegger è l’esplicita conseguenza in cui la valenza di tempo diventa il superamento della morte attraverso il concetto di immortalità. Dove c’è il tempo, c’è l’immortalità. Il tempo non si chiude perché va avanti, parimenti si confronta con la circolarità. La circolarità del tempo è un tempo finito che assume la sua valenza in cui il punto iniziale coincide con il punto finale. Ma la circolarità del tempo resta dentro la sfera del labirinto. Severino supera anche la versione del labirinto per addentrarsi in quella resistenza alla morte attraverso l’immortalità che è data dal tempo, dalla filosofia del tempo, dal tempo filosofico perché è data dal pensiero.

Quando si muore, si muore fisicamente. Il pensiero, però, resta e va oltre. Un concetto fondamentale che fa da apripista. Il pensiero supera la materialità e diventa ontologia, immaterialità e, quindi, immortalità. Il pensiero si tramanda e si trasmette. Non è mai sconfitta o resa. A differenza dalla realtà che finisce nella cronaca o nella storia. Severino va oltre la storia e questo lo ha portato a una dimensione in cui la fenomenologia è forma metafisica. Infatti dirà: “La civiltà della tecnica è ciò che chiamo ‘la forma più rigorosa della Follia estrema’. Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall’angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte”.

L’intreccio del mosaico sta in questo. La fenomenologia che diventa metafisica.

Un filosofo che non si è  fermato alla ragione o a ragionare sulla ragione, ma ha sconfitto la ragione grazie al tempo. A quel tempo fatto di pensieri, di memoria. Fatto leopardianamente di operette morali e non morali. Di liricità e di visioni in cui il senso dell’ancestrale, ovvero l’incipit di ogni vita, resta sempre l’incipit del tempo.

Il filosofo ultimo di una trasformazione non eterea della filosofia, non astratta. Una filosofia che ha basato il suo pensiero e il suo pensare sul concetto di tempo. Essere e tempo. La tragedia quotidiana del vivere umano. Una tragedia che vive l’Attesa. Nei suoi scritti l’Attesa è divenuta religiosità della Parola.

Severino: “Se l’uomo non è il mortale, ma l’apparire del destino della verità; e se l’apparire della verità è contraddizione (contraddizione C), allora l’ ‘anelare’ è l’irrequietezza della contraddizione e quindi l’uomo è l’anelante ‘par excellence’. Quella irrequietezza è l’apparire della necessità che ogni configurazione della terra sia oltrepassata. L’anelare è un vedere la necessità dell’oltrepassamento del luogo in cui l’anelare si apre. Solo il destino della verità può essere quindi l’anelante. Nel linguaggio dell’Occidente l’anelare implica invece il volere, il progettare, appartiene cioè alla logica che crede nel divenir altro degli essenti e nella capacità della volontà di farli diventare altro. Per questo, i miei scritti preferiscono la parola ‘attesa’, perché l’attesa allude alla consapevolezza di qualcosa che non può non accadere”. Dunque, un capitolo irreversibile che campeggia nella filosofia della post metafisica. Pone come attesa anche il rapporto tra Occidente greco e tragedia nella filosofia tedesca.

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