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A Settant’anni dalla scomparsa di Cesare Pavese la letteratura è mito o è nulla

Pierfranco Bruni 
 
 
A settant’anni dalla morte di Cesare Pavese bisognerebbe comprendere che la letteratura non ama la critica. Davanti ad un personaggio come Pavese tutto diventa ingombrante. Persino la storia della letteratura come letteratura della storia. Pavese è altro. È oltre. 
 
Non si può liquidare come la sua Santa de “La luna e i falò”. Pavese è il mito, il falò, il selvaggio, la terra calpestata, il mare come quarta parete della esistenza. Pavese non è un capitolo di un libro. È il racconto incompreso!
Cesare: “Perché il dolore è dissolvenza dei gioni? Soltanto il mito racconta. Ciò che si vive per averlo già vissuto resta nonostante la parzialità della scrittura. Gli dei un giorno ritorneranno e avranno voce. Come la tua”.
Bianca: “Come la mia? Io giungo da lontano e da lontano solco destini. Il destino! Viene dal mare. Come il deserto che porti nell’anima. La mia isola è fatta di roccia. Non è roca. Sa di vento”.
 
Cesare Pavese e Bianca Garufi. Un amore che conduce ai “Dialoghi con Leucó”. Senza Bianca non ci sarebbero stati.
Si tocca il dolore quando il dolore è diventato consapevolezza. Quando ha perso la armonia del dolore stesso. Bianca Garufi cosa è stata per Cesare Pavese? Non lo so! Comprendo cosa possa aver lasciato in Pavese. Ma come si fa a dire cosa sia stata una donna per uno scrittore come Pavese?
Gli amori di Pavese sono stati il tragico nel mito. Tina. Bianca. Fernanda. Constance. Di queste donne però posso dire che la donna mistero e la donna vita e morte è stata Bianca. Bianca il mare. Bianca lo scoglio. Bianca l’isola. Bianca Piazza di Spagna. Bianca la vendetta dell’inconscio.
La felicità ci rende sognanti. O il sogno ci regala briciole di felicità? Tra Cesare Pavese a Bianca Garufi c’è stata un’amicizia dissolvente e discordante. Un rapporto che li ha resi partecipi ad una solitudine individuale che ha attraversato anni difficili e cruciali della vita di entrambi. Una vita contaminata da letteratura, da sensualità, da parole…
Discordanze.

Dalla discordanza può nascere la felicità? Che cos’è la felicità? Mai dire che la felicità  è una leggerezza dell’anima o una dissolvenza che attraversa il dolore e lo supera. Mai dire che la felicità ha la serenità tra le pieghe. Si ha diritto alla felicità. Oppure no? In questo senso il modello greco e poi latino hanno richiesto una sopportazione del quotidiano. La felicità è un assentarsi dalle difficoltà che diventano conflittualità. O forse è riuscire a convivere con le infedeltà della propria anima?
I “Dialoghi con Leucò” ci raccontano questo attraversamento nella dissolvenza della felicità. Una voce epicurea che è dentro tutto il vissuto di Pavese, ma che ha anche rappresentato quell’ancestrale disegno che ha guidato la vita di Bianca Garufi.
Si sono conosciuti per infelicità e per mito e hanno cercato di armonizzarla pur sapendo che era difficile incontrare il contrario. Si ha diritto alla felicità. Bisogna essere in armonia con il proprio sé, con il proprio senso, con il proprio orizzonte.
Non credo che si possa dire che la felicità sia un eterno o che la felicità sia un indelebile infinito che accarezza la linea degli orizzonti, quando gli occhi diventano custodi di memoria. Una memoria che attraversa lo sguardo…
La felicità è saper attraversare il buio pur sapendo che nel bosco è difficile trovare la luce o è difficile sapere che ci possa essere una luna che faccia da faro.
Ognuno di noi vive la propria felicità. O forse la condanna alla ricerca della felicità? Esiste un immaginario di felicità che Pavese e Bianca Garufi hanno cercato di tratteggiare, in quel canto che lui ha definito “La terra e la morte”, attraverso il senso del mistero. . Ma la felicità è anche conoscere la profondità degli occhi di Leucò. È sapere che alla fine di quello sguardo, che gli occhi proiettano, possa esserci la rupe di Saffo.

Bianca – Leucò – Letojanni.
Questo mare infinito che diventa grecità. La felicità è una cognizione del sapere e non della conoscenza.  Sapere o conoscenza. Io conosco perché so, oppure so perché conosco. Essere felice è cercare il viaggio verso la felicità. Una tentazione della armonia nella propria disarmonia. Esistono dicotomie nella vita di ognuno di noi. Discordanze che fanno del tempo perduto una misura della memoria e in questa memoria tutto ha un senso.
Si incontra la felicità? È possibile incontrarla, legarla, perderla. È necessario trovarla. È impossibile non viverla. È impossibile non attraversarla. La non felicità è l’ombra della morte.
La linea che separa la meditazione contemplante verso la felicità innocente è un viaggio spirituale, interiore che ci permette di catturare il senso del quotidiano nel senso dell’interminabile.
Noi dobbiamo sempre illuderci del terminabile della fine, anche se pensiamo di essere interminabili e tutto ciò che facciamo ci sembra interminabile.
Ma tutto ciò è parte integrante di una felicità che detta le regole al nostro essere uomini e donne, in un processo che è mitico in cui le voci del destino disegnano la struttura del nostro essere nel tempo.
Già… essere nel tempo. Pavese ha subito il tempo? Forse sì.
Confrontarsi con il tempo e restare nell’armonia della serenità significa conquistare, granello dopo granello, la sabbia della felicità che entra nella clessidra che conta il racconta di una vita.

La felicità è fatta di granelli di sabbia che scendono lentamente trasformandosi in vento e tempo.
La felicità è ciò che potremmo non avere, ma è anche ciò che, a volte, abbiamo e che non riusciamo a comprendere, ad afferrare, a catturare.
Bianca e Cesare. Due immensi universi in cui la felicità ha segnato un passaggio lieve nella rappresentazione di un infinito gesto sublime. Poi il distacco, la lontananza. Il dimenticato che ha la verità del sublime nel vento. La felicità è anche saper riconoscere che c’è stata, che è stata vissuta, abitata e che non è andata perduta.
Così per Bianca e Cesare Pavese. Una ricerca. La felicità mai raggiunta e vissuta come disperanza. La vita e la morte sono in Leucó. Bisogna toccare il dolore per non morire di solitudine. Bisogna cercare la solitudine per non morire di oblio. Il tragico conosce la felicità di ritrovarsi. Per essere se stessi negli orizzonti. Il dolore può diventare armonia? Il dolore ha anche la sua armonia quando l’armonia ha il quotidiano senso nel tempo metafisico.

 
Bianca: “Perché hai scelto di scivolare nel gorgo muto? Ti sarebbe bastato il diavolo che corre sulle colline o la casa con la sua quarta parete. Forse avresti dovuto dare un senso alla luna senza precipitarla nel falò. Il tuo mestiere di scrivere è stato sempre un fuoco grande. Dimmi, quali occhi avranno la morte?”.
Cesare: “Non mi è bastato scrivere. Avrei preferito vivere la scrittura senza scavarla nella sua roccia. Non ho visto più la luce perché il cielo aveva smesso di raccogliere le ombre e il tempo si è consumato proprio in una bella estate. Tu non c’eri. Non ti ho cercata perché sei rimasta mito. Il mito non si cerca. Il mito ti raggiunge. Ho cercato la morte nella immortalità di Calipso. Ma era troppo tardi. O forse troppo presto”.
 
Cosa resta? Settant’anni. 1908 -1950
42 anni di vita. 70 anni di morte.
Allora? Non un articolo. Non un capitolo dei miei libri. Resta un racconto della vita. Anche della mia.
 
 

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