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Il prezzo pagato alla terra

 
 
 

Angelo Peretti

Mi accade ogni volta che transito in treno per le campagne padane, scendendo da Verona verso Bologna. Mi succede quando visito qualche villa di quelle che si usano chiamare venete e mi soffermo sulle barchesse, laterali al corpo principale. Mi prendono la malinconia, il magone, un po’ anche la rabbia nel vedere i casoni contadini abbandonati, sventrati, che facevano da rifugio malsano a decine di derelitti, quelle ali delle architetture palladiane dove si ammassavano, insieme, bestie e cristiani, nell’umidità, nella sporcizia. Non che fosse diverso ad altre latitudini italiane. Noto di più questi dettagli, perché sono quelli del mio territorio, della mia gente, ma è così ovunque ci sia stata storia di faticatori della campagna. Penso a quanti ci hanno tirato avanti vite grame, di stenti e privazioni e fatiche e malanni, nei tuguri oggi abbandonati. Vite di cui non è rimasta traccia, cancellate dal tempo, dalla memoria. Vite che sembrano non essere mai state vissute.  Io vengo da lì.

Ci ripensavo leggendo “Stoner”, un libro che ti scava dentro. L’ha scritto John Williams. In un certo passaggio, parla della morte del padre e poi della madre del protagonista. Un padre contadino, la moglie di un padre contadino. Avevano terra loro, e questo era già un vantaggio, ma era terra magra.

Ne parla così, John Williams: “Dal piccolo recinto spoglio e senz’alberi che conteneva suo padre, sua madre e qualche altro contadino, scrutò l’orizzonte in direzione della fattoria dov’era nato e dove i suoi avevano trascorso tutta la loro vita. Pensò al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi. Lentamente l’umidità e la putrefazione avrebbero infestato le bare di pino che raccoglievano i loro corpi, e lentamente avrebbero lambito la loro carne, consumando le ultime vestigia della loro sostanza. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro”. Io vengo da secoli di quell’insignificanza. Forse per questo provo a raccontare il vino, oggi. Anche per loro, per quelle vite consumate, per quelle volontà spezzate, per quelle intelligenze spente. Per quel prezzo pagato.

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