Principale Arte, Cultura & Società a vita e il mito. Il mestiere di scrivere morendo

a vita e il mito. Il mestiere di scrivere morendo

Bruni alla scrivania di Pavese

Taranto MArTA. Un pomeriggio raccontando Cesare Pavese  con relazione di  Pierfranco Bruni, video di Stefania Romito  e letture di Marianna Montagnolo. Mercoledì 6 NOVEMBRE ORE 18.00. Introduce la direttrice Eva Degl’Innocenti

In Cesare Pavese la grecità ha una caratteristica fondamentale non solo dal punto di vista letterario ma anche esistenziale e metaforico. Spesso si è confrontato, nei suoi testi, con i miti e i riti della Magna Grecia attraversandoli grazie ad una visione anche antropologica. Di formazione classica, ha trovato nel mito di Leucò il legame tra la grecità e la Magna Grecia. Uno dei suoi libri fondamentali, a forma di dialoghi tra dei, personaggi greci e miti, si intitolo: “Dialoghi con Leucò”.

Leucò è il sinonimo di chiarezza, di bianco, di trasparente. È dedicato completamente ad una donna molto amata da Pavese, Bianca Garufi, che è stata anch’essa una studiosa di grecità dell’inconscio. Con lei ha scritto anche un libro a quattro mani dal titolo “Fuoco grande”. Immaginario antropologico del fuoco e del falò sino a raggiungere il suo ultimo libro “La luna e i falò”.

Pavese è stato attratto dalla Magna Grecia proprio quando è stato confinato, 1936 – 1936, a Brancaleone in Calabria. Comunità grecanica della Calabria. Qui ha offerto uno spaccato impeccabile di grecità descrivendo luoghi e personaggi, costumi e linguaggi tanto da sottolineare che … Qui è tutto greco… anche le donne che vanno alle fontane con l’anfora in testa.

La sua esperienza della profonda grecità è raccontata in uno dei suoi romanzi di esordio dal titolo: “Il carcere”. Un punto di riferimento per una letteratura in cui il mare è la quarta parete di una esistenza. Quel mare Jonico e Greco.
La vita e la morte sono il costante colloquio con il mito.  Cesare Pavese  verso i 70 anni dalla morte (morto il 1950, era nato il 1908). Parlerò del destino e dei simboli persiano in un contesto mediterraneo.
Il mare di Grecia ha il vento del mito. I miti hanno le parole dei simboli dei segni dello sguardo profondo degli dei.

Pierfranco Bruni alla scrivania di Pavese

Da Afrodite a Tiresia Cesare Pavese ha raccontato il linguaggio della memoria. Servendosi dei miti ha cesellato radici che ha rintracciato ripercorrendo l’immaginario omerico.
Omero è il riferimento ancestrale nell’opera dello scrittore dei DIALOGHI CON LEUCÓ.
Saffo è el suo canto come il viaggio nello scavo di quella archeologia dei saperi che hanno disegnato la classicità dei suoi studi e dei suoi romanzi grazie alla presenza di Vico di Eliade di Nietzsche.
Il senso tragico è un viaggiare.
Ma il tragico trova appunto nei mito una arcana empatia che è metafore dei saperi dei popoli e delle civiltà. Popoli e civiltà sono la chiave di lettura dei riti e delle Tradizioni.
Il mito è archeologia e antropologia. Interpreta l’archeologia attraverso gli strumenti di una antropologia che pone al centro la visione del labirinto, quindi di Arianna soprattutto.
Ma cosa è il mito? La poesia è il linguaggio che racconta. La favola. Un cerchio nel quale si intrecciano spazio e tempo.
La cultura contadina è parte integrante di questo processo. La grecitá è il mare. Gli dei che si dichiarino con un immaginario che supera la storia. In Pavese la storia viene superata dalla metafora.

I testi pavesiani che danno riferimento, oltre ad alcune poesie in cui il mito diventa rappresentazione, sono DIALOGHI CON LEUCÓ, IL MESTIERE DI VIVERE, IL CARCERE, I VERSI DI VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI, LA LUNA E I FALÒ, FERIE D’AGOSTO, LE LETTERE INDIRIZZATE ALLA SORELLA MARIA DURANTE IL PERIODO A BRANCALEONE CALABRO.
Se il mito supera la storia il senso del tragico ha eredità che provengono dal teatro greco. Tra i classici latini resta fondamentale Ovidio.
Ovidio e Saffo sono modelli di una LETTERATURA classica che accompagneranno tutta la sua vita e la sua opera. Sino a quel suo ultimo gesto in albergo di Torino della fine agosto del 1950.

Il suo viaggio si condensa nel mio racconto IL VIAGGIO OMERICO DI CESARE PAVESE.
Nel tragico del mito greco non c’è soltanto il teatro di una archeologia del sapere ellenico.
C’è anche la grecitá di D’Annunzio e del viaggio dannunziano in Grecia. Ci sono quei dolori di Werther di Goethe che vivranno nella nascita della tragedia di Nietzsche e, soprattutto, si fa sentire il greco di Zante o Zacinto di Foscolo con il suo Ortis in un mestiere di scrivere che è metafore del mestiere di vivere.

Nel cielo della Magna Grecia le nuvole sono ombre che disegnano il Mediterraneo e tutto ha bisogno di una immaginazione in cui i simboli si chiamano mito. Cesare Pavese ha vissuto la grecitá come eterno incontro tra Ulisse ed Enea. Da Itaca a Troia a Roma. Ha raccolto nella visione di Leucó:  Saffo, Ibico, lo stoicismo di Seneca e la metafora del viaggio oltre a Medea, Circe e Calipso. La grecitá profonda è nel suo incontro con il selvaggio proprio a Brancaleone dove le donne hanno una cadenza greca anche quando vanno alla fontana a riempire d’acqua l’anfora che portano sul capo. La Magna Grecia è una memoria che  vive di un arcano immaginario chiamato Mito.
Pavese è lo scrittore unico di un Novecento italiano che rincorre la Grazia proprio nelle ultime pagine de LA CASA IN COLLINA. Una Grazia che non taglia il buio con il filo della luce ma resta nel bosco zambraniano ad ascoltare la notte.

Quella notte che troverà e alla quale di affiderà consegnandosi in un ultimo viaggio che gli farà scrivere: Non più parole. Un gesto soltanto. Soltanto un gesto. Non scriverò più.
Cesare Pavese ha abitato il silenzio del mondo. Questo silenzio diventerà  il viaggio nel regno degli dei. Personaggi immateriali per uno scrittore che ha sempre raccontato il mestiere di morire nello scrivere la vita sfogliando le pagine del Mito.
La salvezza era racchiusa in una preghiera non trovata ma cercata. Una religiosità spenta nella speranza della luna precipitata sul falò o su un diavolo in cammino sulle colline o di Calipso che non riesce a fermate Odisseo nonostante l’offerta della immortalità.
Pavese sceglie la morte come quella quarta parete diventata metafora del mare. Il mare greco in un viaggio in cui la terra rossa e la terra nera resteranno un gorgo muto.
La salvezza era nascosta in una preghiera non trovata e che nessuno volle offrirgli. Una preghiera cercata oltre il mito stesso.

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