Mi sono sempre chiesta quanto le invasioni dei popoli orientali, in particolare Turchi e Saraceni, ma non solo, abbiano influito sulla condizione della donna nella società salentina del passato.
Dai racconti delle mie nonne, la loro vita è stata caratterizzata dai tabù. Nate nei primi anni del Novecento, la loro esistenza quotidiana è stata scandita dai lavori nei campi, o nelle fabbriche, e di ritorno a casa, dall’obbedienza all’uomo di turno: padre, fratello, marito. La loro condizione di vita, nel XX secolo, ricorda tanto quella della donna francese dell’Ancien Régime, considerata come soggetto passivo, obbligata a fare affidamento sul sesso maschile per stabilire ciò che era meglio per lei. Il motto, nella Francia settecentesca, era “Fuori lavorare, dentro obbedire”, principio maschilista che voleva la donna sottomessa all’uomo in tutto e per tutto. Le donne salentine, infatti, erano sottomesse al padre, che incarnava la figura del padrone, dei fratelli maschi, e una volta data in sposa, al marito, costrette, con poche eccezioni, a rinunciare a progettare liberamente il proprio futuro, la propria vita lavorativa, dipendenti economicamente dal sesso maschile, venute al mondo per sacrificare tutta la loro esistenza alle esigenze della famiglia e del focolare domestico. Non a caso Pino Mariano, attento osservatore, nella sua opera i “Carrettieri Emigrati”, descrive in un elzeviro, con un termine molto forte, il ruolo della donna del sud Italia, sia ella contadina, operaia o casalinga: “Non ricordo più come la donna incominciasse la sua carriera di sguattera”. Il termine deriva dal longobardo “wahtari” con il significato di sorvegliante, guardiano, in origine la parola, ormai desueta, di “guattero” indicava il cuciniere. Non deve, quindi, trarre in inganno il significato di guardiano, in realtà lo sguattero era la persona che in cucina svolgeva le mansioni più umili e pesanti. Il termine riferito alla donna salentina ne sottolinea lo stato di emarginazione e di sottomissione. Il rispetto e la buona reputazione nella collettività del tempo, lei lo riceveva di riflesso, in base al lavoro e al posto nella società occupato dal marito. E che dire dei tabù? Mia nonna raccontava che le sue passeggiate attraverso il paese avvenivano solo al braccio del marito, ma più che una passeggiata sembrava una maratona, il passo svelto e il capo chino al cospetto degli altri uomini riuniti in piazza. Dov’era nascosta la sua dignità? Dietro una società con mentalità squisitamente maschilista. Quando da bambina guardavo dalla finestra le persone che passavano, mi urlava contro: “Togliti immediatamente da lì”, troppo piccola per capire che, nonostante i tempi fossero cambiati, la sua paura atavica di essere etichettata a vita come meretrice si dilatava ai membri femminili della sua prole. Per rispetto non ho mai osato chiederle quali altre proibizioni era stata costretta a vivere, mi sono semplicemente limitata ad ascoltare.
F.Moretti
Buongiorno, sono Alessia Frerotti e sto lavorando alla mia tesi di laurea, mi piacerebbe citare brevemente questo articolo all’interno della mia ricerca. Per farlo però mi servirebbe il nome completo dell’autore/autrice, che non riesco più a trovare all’interno della lista di Redazione.
Sarebbe molto utile riceverlo.
Cordiali saluti,
Alessia