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Tramutola al tempo del viceregno Austriaco

Come arrivarono gli Austriaci nel regno di Napoli?

Quando Carlo II moriva nell’anno 1700, si apprese che aveva lasciato erede Filippo di Borbone, pronipote suo, ma anche di Luigi XIV. Questo dono alla Francia scatenò la guerra di successione spagnola e, nell’anno 1707, la città di Napoli fu occupata dalle truppe austriache. Il regno di Napoli divenne ufficialmente parte dei domini asburgici, però, solo con il trattato di Utrecht, che pose fine alla guerra nel 1713, l’imperatore Carlo VI d’Asburgo, assunse il titolo di re di Napoli. Le paci del 1713 e 14, che sancirono l’intesa, portarono ad un compromesso: Filippo di Borbone sarebbe stato re di Spagna e delle Americhe ed avrebbe ceduto a Carlo VI i Paesi Bassi (attuale Belgio) e Milano, Napoli e la Sardegna.

Durante il diciottesimo secolo i monaci Cassinesi della Badia di Cava si dedicano allo studio ponendo al primo posto della loro attività, l’Archivio. Proprio gli archivisti saranno ricordati dalle future generazioni per i manoscritti inediti, lasciati sulla storia cavese, messi a disposizione di studiosi esterni alla Badia. Nella seconda metà del diciottesimo secolo si attua la trasformazione materiale della Badia e, l’abate Pasca, edifica la sala degli archivisti.

Il feudo Tramutola è governato dal Vicario abbaziale che non é un monaco, ma un laico!

Il Viceregno austriaco (1707-1734) rappresenta un periodo della storia del Mezzogiorno d’Italia ancora poco studiato e su cui, negli ultimi anni, si è registrato un marcato indebolimento del dibattito storiografico. Il presente capitolo, sulla storia di Tramutola, non pretende di offrire né una messa a punto storiografica sui principali temi del periodo, né collegare l’analisi della dimensione politico-statuale ed internazionale della conquista austriaca, né gli effetti che essa ebbe sull’economia e sulla società meridionale e sulle diversificate realtà provinciali e territoriali. Si vogliono, invece, accendere i riflettori su questi ventisette anni, poco conosciuti che si rivelarono per il Mezzogiorno, ricchissimi in ogni settore (artistico, politico, sociale). Il presente capitolo, inoltre, intende aprire uno squarcio del tutto nuovo per la ricerca storica su Tramutola.

Il viceregno austriaco s’inserisce senza stridori tra i due secoli segnati dalla corona di Spagna e il promettente regno di Carlo di Borbone. Con Carlo III la città di Napoli vide importanti segni in numerosi settori (fisco, commercio, difesa, economia, ecc.), ma soprattutto in quello edilizio in continuità con l’azione del viceregno austriaco. L’opera di Carlo (che nel 1759 lasciò Napoli per assumere la corona di Spagna) fu continuata dal figlio Ferdinando IV, finché non venne rovesciato dalle correnti rivoluzionarie e dalle truppe francesi nel 1799.

In questi tre decenni del viceregno austriaco, incominciò a germogliare il rapporto preferenziale tra monarchia e popolo, che si sarebbe poi sviluppato nella sua migliore forma con i Borbone, con i quali il re divenne, a tutti gli effetti, il garante supremo, e perciò amato, dei diritti del popolo contro le pretese dei baroni.

 

Durante il viceregno austriaco(1) per Tramutola non vi sono notizie documentate, ma i portali in pietra di questo periodo, che tuttora ornano gli ingressi delle abitazioni dei tramutolesi, sono una conferma della presenza di ceti nuovi, emergenti, nella Tramutola del 1700. Si comprende che, dopo la crisi di fine secolo (XVII), Tramutola riprende contatto con la capitale del regno, che vive una ripresa economica basata essenzialmente nella convinzione che la povertà e la miseria potevano essere ridotte o eliminate. A Tramutola il passaggio a questa nuova mentalità economica non fu facile, come dimostra il mutare lento ed esitante delle idee correnti relative al lusso, tradizionalmente condannate dalla Chiesa e dalla classe politica per ragioni sia economiche che morali. Però anche a Tramutola si affermò l’idea che il lusso era un fattore di progresso economico e, quindi, anche civile, un mezzo da propagare, perfezionare, sollecitare l’arti, lo spirito e la raffinatezza del paese, e dare da vivere a quelle famiglie che non avevano altro capitale fuor che la fatica. E’ di questo periodo storico, la ripresa mai sopita dell’attacco ai privilegi feudali ed ecclesiastici. Gli uomini di Tramutola lottavano per raggiungere il passaggio da vassalli ad uomini liberi, da sudditi a cittadini ed era condotto non solo per ragioni egualitarie, ma anche per motivi economici. Questo attacco é portato avanti dai viceré austriaci di concerto con le università e dai capi famiglia che compongono il parlamento, agevolati dalla politica del viceregno austriaco che agisce contro le pretese del barone di Tramutola, Abate di Cava. Contemporaneamente il suffeudatario, coltivatore-conduttore dei possedimenti dell’abate, si assoggetta al barone o vicario, che dir si voglia, per convenienza, per avere protezione in cambio di una promessa di fedeltà e di servizi. Il censuario, subordinato alla fedeltà del barone, era libero di acquistare ed attingere ai beni del Regio Demanio, ma tenuto al permesso signorile, dell’abate barone, per disporre dei beni del feudo. Di fatto i beni del barone, molini e giardini, vengono gestiti da alcune famiglie e per diversi anni nel XVII e XVIII secolo, la produzione molitoria di Tramutola é esclusiva di queste famiglie, mantenendo le terre del feudo in qualità di fittavoli e non come mezzadri, presupponendo quindi una agiatezza economica che consente di acquisire le terre da coltivatore per coltivare. Nello stesso periodo le stesse famiglie si trasformano da vassalli a cittadini del Comune, aggiungendo al nome quel titolo di Don, su cui mi soffermerò in seguito.

Durante il periodo del viceregno austriaco queste famiglie hanno il possesso di beni immobili in territorio di Tramutola, Marsico e Saponara. Il popolo di Tramutola doveva cercare terreni disponibili fuori del piccolo territorio di Tramutola, per poter vivere(2). Pertanto, i tramutolesi avevano acquistato terreni in territorio di Marsico e Saponara e per l’adacquatura(3) dei lini, il comune di Marsico, esigeva il tributo di un carlino a tomolo di seminato(4). La produzione agricola, escluso gli ortaggi, era indirizzata essenzialmente alla produzione di lini e canape e alla loro trasformazione in vestimenti. Le manifatture, godevano di una certa rinomanza nel mercato della provincia di Basilicata, dirette a soddisfare la domanda interna e oltre provincia, nel salernitano, a soddisfare una domanda meno esigente, che rappresentava tuttavia la maggior parte della domanda totale. Siamo in presenza di uno stimolo della produzione di lino e canapa che permette di aumentare le esportazioni e in definitiva di una buona eccitazione economica che si traduce in reddito per i tramutolesi. Il settore tessile mostra una ripresa per la disponibilità economica delle famiglie di Tramutola, che si evidenzia, soprattutto dagli accordi di bonatenza per i nuovi acquisti fatti dai tramutolesi in territorio marsicano, che si stipulano con il Comune di Marsico (5).

Non possediamo dati per gli immatricolati all’arte e neppure per i dati della presenza di maestri. E’ comunque l’agricoltura che funge da valido cardine dell’apparato produttivo, grazie anche alla lunga serie di buoni raccolti di cui viene a godere in questi anni tutto il Mezzogiorno. La produzione manifatturiera tessile, mantiene un ritmo sostenuto che determina il risveglio delle attività commerciali. Nel settore manifatturiero è da registrare anche una certa effervescenza nelle manifatture laniere. In questo periodo si costituisce il primo nucleo della borghesia tramutolese formata da proprietari terrieri, famiglie che gestiscono e conducono le proprietà dell’abate, professionisti, commercianti, artigiani e da uno stuolo di sacerdoti che si occupano prevalentemente dell’istruzione dei ragazzi delle famiglie facoltose.

La massa del popolo senza terra e senza futuro é enorme e le abitazioni di questi poveri si distinguono da quelle dei galantuomini per lusso e comodità. I rioni popolari sono quelli di Capo Casale e Casaletto e i vicoli che s’intersecano con le vie principali del paese.

Tramutola si sviluppa su tre arterie principali, che rappresentano le tracce più evidenti di paese medio-evale, che attraversano tutto l’antico abitato e sulle quali s’intersecano i vicoli. Le arterie sono Via Cavour, sicuramente la più antica delle tre, inizia dalla chiesa di S. Matteo, dopo palazzo Rautiis e finisce in prossimità della fontana o lavatoio, ‘Ncap l’Acqua, congiungendosi con l’altra arteria che é il Corso V. Emanuele III, che dalla fontana porta in Piazza del Popolo e da qui verso l’esterno del paese. Lungo Via Cavour erano situate le botteghe degli artigiani e dei commercianti. Via Calderai e Vico Tintiera, tratteggiano i mestieri che si svolgevano in quel rione. Lungo il Corso V. Emanuele III erano situate le case dei galantuomini. L’altra arteria é il Corso Garibaldi che da Largo Mercato o chiesa S. Vito, attraversando la parte bassa del paese, porta alla chiesa della Santissima Trinità.

Oggi, chi percorre le strade di quello che fu il centro storico di Tramutola, non può rendersi conto di quello che anticamente il paese presentava sotto l’aspetto del valore umano e della struttura urbana. Oggi osserviamo qualche abitazione ricostruita con i fondi della legge 219 (terremoto 23 novembre 1980) e non sempre abitate, e tutte le altre abbandonate e diroccate con infissi sgangherati, vetri rotti e spesso porte semiaperte o aperte del tutto. A volte sembra di stare in zone dove gli abitanti sono fuggiti in seguito a gravi calamità (Via del Colle, dopo la salita della cappella di S. Lucia). Talvolta si osservano luoghi nelle aree di vecchie case, in tutto o in parte abbattute, nella ricerca di un fittizio respiro al paese quelle case hanno solo registrato un’amputazione alla struttura dei fabbricati, di fatto causando solo danni, al paese e ai proprietari. In tempi recenti Tramutola presenta una quarta arteria, Via Mazzini, ai bordi della quale sono state costruite nuove abitazioni e strade che si dirigono verso rioni che di fatto hanno consentito agli abitanti di Tramutola di poter abbandonare abitazioni prive di servizi e trasferirsi in abitazioni popolari con più servizi e più adatte al vivere moderno.

Gli anni del viceregno austriaco nel regno di Napoli, furono fecondi anche per il mecenatismo musicale e videro il fiorire di una straordinaria stagione artistica, di eccezionali qualità. In questo periodo va di moda la serenata con cui si designava una cantata di ampie proporzioni, destinata ad una platea convenuta in una dimora di persone benestanti, per celebrare eventi speciali e solenni occasioni, matrimoni, battesimi, compleanni e feste onomastiche, ricorrenze religiose e feste popolari. Spesso con le serenate si accompagnavano le danze e per Tramutola non abbiamo notizie relative a questo periodo, anche perché la Chiesa cristiana vedeva la danza troppo legata al paganesimo e a momenti sensuali e volgari. Sicuramente gli studenti che frequentavano l’università di Napoli, avevano partecipato alle serenate napoletane e alla voglia eterna di cantare ballando sfrenatamente le tarantelle. Tutti gli avvenimenti sociali, pubblici e privati, compreso il lavoro nei campi erano caratterizzati dalla musica. Solo per l’ottocento abbiamo notizie che il padre di Vincenzo Ferroni, Nicola, esercitava il mestiere di sarto e contemporaneamente coltivava la passione per la musica nel solco di una tradizione a Tramutola che si può ricondurre alla prima metà del settecento, durante il viceregno austriaco. Con Nicola Ferroni, Tramutola ebbe, forse, la prima banda musicale cittadina della quale fu nominato egli stesso maestro. Anche il ragazzo Vincenzo Ferroni fece il suo addestramento di musicista come cornista nel complesso bandistico locale, ed iniziò lo studio della musica. Tutto ciò ci fa supporre che già nel secolo precedente, a Tramutola, erano presenti dei musicisti popolari che avevano trasmesso la loro passione.

Le riforme messe in atto dall’Austria per il regno di Napoli, nel periodo del viceregno austriaco, sono provvedimenti che, per la loro organicità e finalità, possono considerarsi di stampo riformistico. Essi sono(6):

1) L’istituzione della Giunta delle Università, per il miglioramento della finanza locale, del marzo 1729;

2) la ricompra dei fiscali, attraverso il Banco di S. Carlo, istituito nel 1728;

3) la numerazione dei fuochi del 1732, non completata, o per lo meno non utilizzata a fini tributari.

Il primo provvedimento riguardava il tentativo di aumentare le entrate statali mediante il riordinamento della finanza locale, vale a dire dei Comuni, molto spesso oberati da debiti e in arretrato con le imposte alla regia Corte. Il provvedimento del 31 gennaio 1729, mirava a ridurre i debiti dei Comuni mediante una vera e propria conversione della rendita (al 5%) dei loro creditori. Questi provvedimenti non furono mai applicati per le enormi difficoltà di applicazione.

Il breve periodo austriaco fu caratterizzato da un gravosa politica di prelievi fiscali (dapprima dovuta dalle spese di guerra nelle quali l’Impero asburgico si era invischiato e poi dal tentativo di risanare le finanze statali e da un intervento rivolto a limitare gli immobili di proprietà di chiese e conventi. Un intervento che avrebbe dovuto contrastare il vecchio problema di carenza di alloggi, vista l’elevata popolazione di Napoli (circa 250.000 abitanti). Per gli stessi motivi a questo periodo si rifà l’abolizione delle Prammatiche spagnole (1718) che avevano bloccato l’espansione urbana fuori dalle mura.

Come se ne andarono gli Austriaci da Napoli?

L’eccessiva crescita degli Asburgo di Vienna, predominanti in Italia, suscitò la reazione dei Borbone di Francia e Spagna e nel 1734, l’esercito spagnolo del Conte di Montemar sconfisse a Bitonto gli Austriaci e impose sul trono di Napoli e di quello di Palermo il figlio di Filippo V di Borbone, Carlo.

L’ultimo dei viceré austriaci, Giulio Visconti, fu costretto a far fronte all’invasione borbonica e alla conseguente guerra, ma nel contempo, riuscì a lasciare ai nuovi sovrani una situazione finanziaria migliore rispetto a quella trovata alla fine del Viceregno ispano-napoletano. Il vicereame austriaco terminò, quindi,  nell’anno 1734, quando Carlo di Borbone conquistò il regno di Napoli, fondando la dinastia dei Borboni di Napoli.

L’Austria non riuscì mai a consolidare il suo potere nel regno di Napoli per la permanente sfida della Spagna di affidare il controllo dell’Italia a una nuova e potente dinastia Borbone-Farnese di Parma che avrebbe allargato i suoi possessi.

Con l’introduzione del “Don“, nel ragionamento sulle famiglie benestanti tramutolesi, nasce la necessità di chiarire questo appellativo onorifico. Il termine ” Don ” indica persone che godevano di una certa “sostanza”, sia economica che terriera, ma non indica in alcun modo l’appartenenza alla nobiltà. Le famiglie benestanti sono famiglie con una maggiore considerazione e che il popolino dicevano “nobili”. Tutte queste famiglie erano in generale famiglie di piccoli o mediocri benestanti che vivevano senza esercizio di arte o professioni, ma con redditi della terra o dei capitali investiti in greggi. Erano quelle famiglie deputate al governo dell’Università e che gli eletti ai seggi non sempre sapevano scrivere il proprio nome.

A Tramutola e in altri luoghi del Regno di Napoli, a determinare il ceto sociale, concorrono, oltre alla nascita, la professione e il mestiere e, in maniera determinante, la posizione economica per cui è possibile che uno stesso personaggio passi, nel giro di pochi anni, dal ceto dei popolani a quello dei civili o anche a quello dei galantuomini. Chi si addottora in giurisprudenza, anche se appartiene a famiglia di popolani, viene considerato galantuomo, qualifica sociale spettante innanzitutto ai ricchi proprietari e agli ex baroni. E tra i civili, con diritto di Don, viene annoverato chi, figlio di padre popolano si addottora in Medicina. Gli Agrimensori e i ricchi agricoltori diretti, molti dei quali pretendono e hanno diritto al Don, spettante sempre ai civili. Il massaro di campo, il bottegaio, il maestro di bottega che si è rapidamente arricchito, con il lavoro o l’usura, pretende e riscuote il “rispetto” dovuto alla “gente ricca” da parte dei suoi concittadini i quali riconoscono loro il “titolo di Don”. In tal modo nel giro di una generazione si viene a formare la nuova classe dirigente, ma non la nobiltà.

Invece, forse, é da chiarire la differenza, ammesso che ci sia, tra nobiltà generica e distinta civiltà.

Il concetto di distinta civiltà è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico, e attraverso di esso nell’universo dell’araldica, dall’articolo 30 del Regio Decreto 7/6/1943 n° 651, concernente l’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del seguente 24 luglio, e che qui si riporta:

“É ammesso il riconoscimento di stemmi di cittadinanza a famiglie non nobili, ma di distinta civiltà, che possano provare con documenti autentici o riproduzioni di monumenti di goderne da un secolo il legittimo possesso”.

Cosa sia la distinta civiltà, cosa la differenzi dalla nobiltà, perché la si debba godere da cento anni, perché basti un generico monumento a dimostrarla, perché non definirla nobiltà cittadina o simile, non è dato sapere dal succitato testo, il quale nacque in un periodo travagliato e non ebbe il tempo di essere meglio precisato da altre leggi, da sentenze o da ulteriori strumenti interpretativi o tecnici.
Questa nuova categoria comprendeva, a mio avviso, molte persone che, anche se non di origine famigliare nobile, ricoprivano cariche sociali di posizione elevatissima (deputati, prefetti, generali, notai, magistrati, medici, ecc.) che spesso possedevano anche un loro stemma (per i generali e per i notai, anche durante il Regno d’Italia gli ornamenti per gli stemmi erano codificati). In alcuni Stati preunitari queste cariche erano considerate nobilitanti e dunque conferivano la nobiltà personale e in certi casi (ad es. ripetizione della stessa carica per tre generazioni di una famiglia) anche quella trasmissiva. Creato il Regno d’Italia e riconosciuti i titoli nobiliari esistenti, la prerogativa di titolare altri nobili era esclusiva del Re e dunque non potevano più esistere le cariche di per se nobilitanti. Ecco forse il perché della nascita del ceto della “distinta civiltà”.

Questa mia ipotesi può forse aiutare a spiegare perché alcune persone di “distinta civiltà” sono state accolte nei ceti nobiliari di ordini cavallereschi. Resta comunque una semplice ipotesi.
La “distinta civiltà” categoria storico-sociale tutta italiana è davvero una strana creatura. A mio avviso credo che all’interno di questa definizione sia stato raggruppato un insieme molto eterogeneo e che vi siano probabilmente famiglie che potrebbero ben essere più vicine alla condizione nobiliare, e al cosiddetto more nobilium (considerando anche le “diverse sfumature” legate a condizioni storiche, consuetudini geografiche, ecc.), ed altre invece effettivamente più lontane: insomma, credo che, molto banalmente, si dovrebbe davvero considerare caso per caso.

Nel Regno di Napoli, le famiglie nobili, anche di piccola nobiltà, preferivano vivere con poco ma non lavorare. Studiavano e chi voleva e poteva, assumeva un precettore per i propri figli, che impartiva loro le nozioni fondamentali. Un piccolo nobile, magari andava in campagna, cosa che non era considerata disdicevole, come per esempio l’attività da mercante. Nel napoletano, è vero che alcuni avvocati vennero inseriti nell’elenco dei baroni, per il pagamento dell’adhoa, ma dopo aver comprato qualche terra, in seguito al loro arricchimento con la professione, poi magari ottenevano anche un titolo. Durante il viceregno austriaco a Napoli, bastava possedere un carato di feudo, magari anche pochi moggi della porzione feudale, per poter ottenere un titolo, avendo conoscenze a corte.

A questo punto la domanda é: quali sono i requisiti che debbono sussistere affinché una famiglia possa essere definita di nobiltà generica?

La domanda mi pare più irta di ostacoli di quanto sembri a prima vista, a mio modesto parere il più ostico, forse, è la disparità delle condizioni che l’attribuzione di una “nobiltà generica” richiedeva nelle diverse aree degli stati pre-unitari italiani. Ad esempio attività come quelle notarili o mercantili – che in alcune aree dell’Italia settentrionale non pregiudicavano l’appartenenza alla piccola nobiltà rurale ma, al contrario e soprattutto nel notariato, ne fornivano l’occupazione più tipica – in altre aree, specialmente quelle meridionali, non sarebbero state consone alla condizione nobiliare.
Con la mia indagine ho osservato, inoltre, che vi siano addirittura notevoli sfumature differenti in una stessa zona con il contrasto città/campagna, quando il piccolo nobile rurale sempre considerato tale nella sua comunità, si inurba, si trova talvolta non percepito come “nobile” secondo gli “standard” sociali dei nobili cittadini.

A mio avviso, un quesito così ampio andrebbe per lo meno contestualizzato geograficamente e cronologicamente e anche dopo, temo, si potrebbero incontrare differenze significative in aree molto vicine tra loro.

Anche dopo aver ristretto i margini geografici e cronologici la differenza tra nobiltà feudale, civica, cavalleresca ed onorifica (tanto per citare alcune diverse tipologie) rende l’argomento troppo vasto.

Tramutola, durante la sua storia feudale, ha conosciuto un solo “nobile”, il barone, Abate di Cava, e, solo successivamente, dopo gli eventi dell’Unità d’Italia, il conte Giuseppe Falvella. Di costui e, come ha comprato il titolo di conte, mi sono interessato con la mia ricerca Tramutola Il Monastero di S. Maria del Carmine, alla quale rimando il lettore.

Dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana e cioè dal 1º gennaio 1948 è cambiato tutto. I titoli nobiliari sono diventati pura facciata, privati di qualsiasi valore giuridico. Non possono più essere inseriti nei documenti di riconoscimento.

La classe borghese del regno di Napoli aspirava a diventare l’ago della bilancia delle sorti del Mezzogiorno d’Italia. I suoi uomini sono colti e si distinguono negli studi professionali. Fanno del riformismo una loro bandiera e chiedono funzioni dirigenti. Provocano sommosse contro la nobiltà per eliminare gli antichi privilegi, a Tramutola, sono presenti nei moti di fine settecento(7). Si spiega come i nobili, a Tramutola il barone Abate di Cava, durante il periodo austriaco, dal 1707 al 1734, si appoggino a Vienna nel tentativo di creare una monarchia autonoma di stampo restauratore, che mortificasse la conquista del ceto borghese e tutelasse i loro interessi.

A completamento di questo capitolo, si riportano i nomi dei notai che esercitavano la loro professione, a Tramutola, nei secoli XVII e XVIII e che rappresentavano la borghesia locale:

De Marco Cesare 1602;

Abbate Scipione (1602-1609);

Abbate Francesco (1603-1621);

De Rautiis Giuseppe Carlo (1612-1619);

Rautiis Marcaurelio (1612-1644);

Fanelli Antonio 1624;

De Rautiis Giovanni Carlo (1628-1656);

Rautiis Giovanni Domenico (1645-1673);

Murena Bartolomeo (1653-1682);

Rautiis Rocco ( 1679-1699);

Marigliano Alessandro (1700-1726);

Falvella Rocco (1705-1732);

Castagna Pietrantonio (1708-1754);

Valentino Antonio (1712-1737);

Messina Giambattista (1728-1732);

Castagna Antonio 1729;

De Rautiis Francescantonio (1735-1750);

Marigliani Serafino (1737-1762);

Notaroberto Michele (1752-1782);

Marino Lorenzo I (1762-1809);

Vita Domenico (1762-1807);

Marino Lorenzo II (1766-1779);

Vignati Angelo Andrea (1767-1787);

Marigliano Alessandro (1769-1824);

Stefano Alessandro 1780;

Greco Francesco Donato (1786-1792).

(1) Saverio Russo, Niccolò Guasti “Il viceregno austriaco” (1707-1734) tra capitale e province, atti del convegno a Foggia il 2 e 3 ottobre 2009.

(2) cfr. Vincenzo Petrocelli ” Tramutola Il monastero di S. Maria del Carmine” RCE Edizioni finito di stampare novembre 2003.

(3) cfr. Vincenzo Petrocelli ” Storia di confini e relazioni municipali” Il Giardino di Azimonti EDIZIONI finito di stampare aprile 2014.

(4) Unità di misura di superficie agraria.

(5) cfr. Vincenzo Petrocelli ” Storia di confini e relazioni municipali” Il Giardino di Azimonti EDIZIONI finito di stampare aprile 2014.

(6) Il Mezzogiorno d’Italia dalla Monarchia spagnola all’Impero asburgico. Economia e finanza pubblica (1707-1734). Antonio Di Vittorio.

(7) cfr. articolo sul mio blog Moti tramutolesi del 1797 e 1799.

Vincenzo Renato Petrocelli

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