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Spreco alimentare: Cause e proposte

Claudio Rossi

In Europa e in Nord-America si stima che i consumatori buttino via tra i 95-115 chilogrammi pro capite di cibo all’anno, mentre nel sud-est asiatico e nell’Africa sub-sahariana il dato è di 6-11 chilogrammi pro capite. Lo spreco alimentare ha assunto, e sta sempre più assumendo, una dimensione di portata mondiale, tanto che metà del cibo prodotto nel mondo non arriva mai ad essere consumato.

Il problema dello spreco alimentare è da ritenersi connesso alle politiche economiche e di marketingche, negli ultimi 20 anni, hanno prodotto fattori e azioni comportamentali altamente distorsivi della realtà fattuale e delle conseguenze effettuali che da tali modus comportandi e vivendi ne sono conseguite. Le politiche di marketing delle multinazionali e le normative sulla brevettazione dei prodotti agroalimentari hanno contribuito a generare comportamenti sociali tendenti a produrre sempre più “spreco” e “scarto” alimentare. La cultura del “riciclo” e del “riutilizzo” alimentare fatica non poco ad affermarsi rispetto al suo contrario. La sproporzione della produzione alimentare, senza che ciò abbia nel corso degli ultimi 4 lustri consentito di ridurre drasticamente il numero delle persone che nel mondo non hanno accesso alla nutrizione, ha, al contrario, polarizzato ulteriormente le fasce sociali del pianeta. Questa paradossale ipertrofia produttiva ha sull’ambiente un impatto devastante e, se non fermata per tempo, irreversibile. Nell’immaginario collettivo dei Paesi cosiddetti “ricchi” l’educazione alimentare, erroneamente, si traduce in “performanti” diete, o nuovi “costumi alimentari”, che si rivelano dannosi per l’organismo umano con ricadute sulla spesa sanitaria che diventa crescente a fronte di nuove patologie connesse all’alimentazione. Il tema della “scarsità delle risorse naturali”, che deve essere centrale nell’agenda politica di questo millennio, è vissuto, il più delle volte, come un mero esercizio percettivo.

I dati sullo spreco di cibo nei Paesi industrializzati ammonta a 222 milioni di tonnellate, ossia il corrispettivo della produzione alimentare disponibile nell’Africa sub-sahariana, che è di 230 milioni di tonnellate; a contribuire, ulteriormente, alla “cultura dello scarto alimentare” a valle, e nella produzione delle eccedenze a monte, è il disallineamento tra la domanda e l’offerta e la non conformità del prodotto agli standard di mercato: calibratura della frutta, aspetto della verdura che non deve presentare macchie o quant’altro possa far percepire all’acquirente la non salubrità del prodotto e le pratiche commerciali che incoraggiano i consumatori a comprare più cibo di quello di cui hanno effettivamente bisogno; un altro motivo dello spreco alimentare è da imputare alle etichette che indicano la data di scadenza. Sarebbe corretto porre in etichetta la doppia scadenza: il termine minimo di conservazione, che si riferisce alle caratteristiche qualitative del prodotto, “preferibilmente entro” (data di scadenza commerciale del prodotto) e la data di scadenza vera e propria, “da consumarsi entro” (relativa alla salubrità del prodotto alimentare), al fine di evitare confusione sulla commestibilità del cibo. Inoltre, gli imballaggi per alimenti dovrebbero essere offerti anche in confezioni monodose e progettate per la migliore conservazione possibile. Da ultimo, i cibi prossimi alla scadenza e i packaging danneggiati dei prodotti alimentari dovrebbero essere venduti a prezzi scontati, al fine di renderli economicamente più accessibili alle persone bisognose.

Il 19 gennaio 2012 il Parlamento europeo ha approvato, in seduta plenaria, una risoluzione su “Come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nella UE”, la quale si pone come obiettivo principale la riduzione degli sprechi alimentari del 50 per cento entro il 2025 e di dedicare il 2014 quale anno europeo contro lo spreco alimentare attraverso una strategia per migliorare l’efficienza della catena alimentare degli Stati membri; dalla relazione (2011/2175(INI)), preparatoria della risoluzione, si evince che secondo uno studio della Commissione europea, la produzione annuale di rifiuti alimentari nei 27 Stati membri ammonterebbe a circa 90 milioni di tonnellate, ossia 179 chilogrammi pro capite, senza contare gli sprechi a livello di produzione agricola o le catture di pesce rigettate in mare, considerando che entro il 2020 il totale dei rifiuti alimentari aumenterà fino a circa 126 milioni di tonnellate, ovvero il 40 per cento in più dello stock attuale.

Da recenti studi è emerso che per produrre un chilogrammo di cibo si immettono in atmosfera in media 4,5 kilogrammi di anidride carbonica, che in Europa si producono 170 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente all’anno, ripartiti tra industria agroalimentare (59 milioni di tonnellate), consumo domestico (78 milioni di tonnellate) e prodotti non raccolti nei campi (34 milioni di tonnellate). Si pensi, come esempio, che in Inghilterra il 30 per cento della produzione orticola non viene raccolta (corrisponde allo spreco di 550 milioni di metri cubi di acqua), percentuale che in Italia si attesta al 3,2 per cento; la concentrazione in atmosfera di anidride carbonica a gennaio 2013 ha raggiunto il record di 395 parti per milione, avviando la temperatura globale (si consideri che il 2012 è stato il nono anno consecutivo più caldo dal 1880) verso un aumento superiore di 2 gradi di media, con gravi danni irreversibili all’ambiente, all’agricoltura e, di conseguenza, all’alimentazione. La FAO stima che a livello mondiale la quantità di cibo che finisce tra i rifiuti ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate e che 925 milioni di persone nel mondo sono a rischio di denutrizione, e la popolazione mondiale ipernutrita è pari a quella sottonutrita e denutrita: questi dati allontanano, oggettivamente, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio, incluso quello di dimezzare la fame e la povertà entro il 2015. Sempre secondo dati della FAO, il previsto aumento da 7 miliardi a 9 miliardi della popolazione mondiale richiederà un incremento minimo del 70 per cento della produzione alimentare entro il 2050.

Oliver De Schutter, relatore speciale dell’organizzazione delle Nazioni Unite per il “Diritto al cibo”, nonché docente universitario di diritto all’università cattolica di Lovain-La Neuf (Belgio), nel marzo 2012 ha presentato al Consiglio per i diritti umani, in conformità alla Risoluzione 13/4, la sua relazione che analizza i nessi di causalità tra salute, malnutrizione e spreco alimentare. Relativamente al nesso che esiste tra salute e malnutrizione, il rapporto mette in evidenza che: «l’urbanizzazione, “supermercatizzazione” e la diffusione globale degli stili di vita moderni hanno scosso le tradizioni alimentari. Il problema è di “sistema” e trova le sue cause nel commercio globale, nei cibi troppo elaborati, nelle politiche agricole attuali, nelle tecnologie con brevetto proprietario, nell’elaborare diete “disastrose” dei Paesi sviluppati e in quelli dalle economie emergenti (come il Messico, ad esempio). Il risultato è il disastro per la salute pubblica: 2,8 milioni di persone muoiono prima dei 60 anni a causa di malattie non trasmissibili, diabete e obesità, collegate alla dieta, (saranno 5,1 milioni nel 2030, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) a cui aggiungere le ripercussioni economiche sulla spesa sanitaria pubblica». E, inoltre, il relatore ha denunciato, in termini generali, la sproporzione che esiste tra gli investimenti pubblicitari nel food, 8,5 miliardi di dollari negli Stati Uniti nel 2010, e i modesti budget per l’educazione alimentare pubblica, che nello stesso anno sono stati pari a 44 milioni di dollari per il programma federale “Nutrition, physical activity and obesity”. Nel rapporto si evidenzia come la pubblicità di cibi “spazzatura” (junk food), rivolta ai bambini e non solo, contribuisce all’eccessivo consumo di snack nell’alimentazione quotidiana che ha snaturato la cultura del rispetto e della conservazione del cibo, che è stata falsata dalle multinazionali nella composizione dei valori nutrizionali come, per esempio, nell’alterazione del contenuto dei grassi, degli zuccheri e del sale, al fine di rendere il cibo “appetitoso” e maggiormente prossimo al consumo immediato e meno prossimo alla sua conservazione perché facilmente deteriorabile. Sempre secondo il rapporto il “cibo perso” nei Paesi in via di sviluppo, dove la carenza di infrastrutture e regole stringenti per la conservazione incide fino al 50 per cento sul deterioramento degli alimenti, comincia ad assumere dimensioni quasi vicine a quelle dei Paesi industrializzati; nell’Unione europea oltre 79 milioni di persone vivono ancora al di sotto della soglia di povertà, mentre 18 milioni di persone dipendono dagli aiuti alimentari. Al contempo, le percentuali degli sprechi alimentari sono così ripartite: il 42 per cento dalle famiglie, il 39 per cento dai produttori, il 5 per cento dai rivenditori e il restante 14 per cento dal settore della ristorazione; secondo i dati dell’indagine realizzata nel 2012 dalla Fondazione per la sussidiarietà e dal Politecnico di Milano, in collaborazione con Nielsen Italia, lo spreco alimentare in Italia ammonta a 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro (6,9 miliardi direttamente dai consumatori). Il cibo sprecato in Italia è di 108 chilogrammi pro capite, 450 euro a famiglia composta da un nucleo di 2,5 persone (famiglia media), 42 chilogrammi a persona di avanzi alimentari non riutilizzati ancora commestibili buttati da ogni italiano in un anno, 35 per cento la percentuale di prodotti freschi sprecati, 250 chilogrammi la quantità di cibo buttato dai 600 ipermercati italiani, 16 per cento la percentuale dello spreco che finisce direttamente nelle discariche per la cattiva gestione del frigorifero familiare, mentre la parte di cibo recuperato e donato alle food bank e agli enti caritativi rappresenta poco più del 6 per cento del totale; sempre secondo l’indagine emerge che quasi un miliardo di euro di cibo viene recuperato e l’obiettivo è quello di portare sulla tavola degli indigenti altri 6 miliardi di euro di cibo; infatti, non sempre i prodotti ritirati dagli scaffali che sono prossimi alla scadenza finiscono nella pattumiera. Il merito è da attribuire alle onlus come il Banco alimentare, rete antispreco con oltre 1400 volontari. Obiettivo analogo a quello di “Last minute market”, spin-off dell’università di Bologna che unitamente a SWG hanno creato un “Osservatorio sullo spreco alimentare” il cui nome è “Waste watchers” (sentinelle dello spreco). Secondo le prime stime fatte da Waste watchers, in Italia lo spreco alimentare rappresenta l’1,9 per cento del prodotto interno lordo (circa 18,5 miliardi riferiti al 2011) così ripartito: lo 0,23 per cento si colloca nella filiera di produzione (agricoltura), trasformazione (industria alimentare), distribuzione (grande e piccola) e ristorazione (collettiva), il restante valore percentuale, lo 0,96 per cento del prodotto interno lordo, è rappresentato dal livello domestico. La quantità di cibo sprecato potrebbe essere ridotta del 60 per cento con un’educazione più attenta ai consumi alimentari; Last minute market ha realizzato un documento denominato “Carta spreco zero”, il quale viene continuamente arricchito e aggiornato grazie all’implementazione delle conoscenze, allo scambio delle buone pratiche fra amministrazioni e, di conseguenza, nell’adozione di nuovi strumenti di analisi e di indirizzo che il documento propone; il documento “Carta spreco zero” è stato sottoscritto da oltre 700 sindaci europei e detta un decalogo comportamentale alimentare con cui poter avviare processi razionali al fine di ridurre drasticamente gli sprechi e le perdite alimentari; la legge n. 155 del 2003, detta anche legge del “buon samaritano”, disciplina il recupero e la distribuzione di alimenti cotti e freschi da parte di organizzazioni non profit a fini sociali. Il principio finalistico della legge è quello di incentivare il riutilizzo di cibo ancora commestibile proveniente dai produttori o dalla grande distribuzione, non più vendibile per difetto di packaging o perché vicino alla scadenza, ma anche dalle mense aziendali e scolastiche. Unico vincolo della legge è l’attenzione da prestare al trasporto e al corretto stato di conservazione degli alimenti, equiparando, di fatto, gli enti non profit ai consumatori finali. Infatti, il recupero del cibo deve avvenire mantenendo “la catena del freddo”. Grazie alla legge del “buon samaritano” è stato possibile avviare progetti di raccolta viveri, come il progetto “Siticibo” che in 9 anni ha consentito di salvare dal cestino dei rifiuti 2,5 milioni di porzioni distribuendole nelle mense cittadine degli enti e organizzazioni caritative.

La lotta allo spreco alimentare nei Paesi industrializzati è stato avviato alla fine degli anni ’60 a Phoenix (Arizona, Stati Uniti), grazie a John Van Hengel, attraverso la distribuzione ai bisognosi di cibo non venduto e destinato alla distruzione. Questo strumento di “perequazione alimentare” ha assunto il nome di Food bank, Banco alimentare, che si è diffuso in Europa negli anni ’80 e in Italia nasce nel 1989. Basato sul concetto di “dono e condivisione”, il Banco alimentare si estrinseca nella raccolta delle eccedenze di produzione alimentare agricola e industriale, specificatamente riso, olio d’oliva, pasta e latte. In Italia la raccolta delle eccedenze viene effettuata dal 1995 dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), la quale ridistribuisce le eccedenze agli enti caritativi iscritti nel relativo albo istituito presso l’ente medesimo; il maggiore fornitore della rete che fa capo ai Banchi alimentari d’Europa è stata l’Unione europea, attraverso il programma europeo d’aiuto agli indigenti, PEAD, nato nel 1987 all’interno della Politica agricola comunitaria, (PAC). Il programma d’aiuto è stato concepito come misura per evitare che le eccedenze della produzione agricola europea fossero distrutte. Oggi, queste eccedenze, grazie alle numerose revisioni della PAC e al miglioramento delle pratiche tecniche di conservazione, si sono sempre più ridotte, portando l’Unione europea ad acquistare direttamente sul mercato le derrate da donare ai poveri che, in Europa, rappresentano 18 milioni di persone; il 14 novembre 2011, il Consiglio dei ministri dell’agricoltura dei 27 Stati membri riuniti a Bruxelles ha sbloccato i piani di assistenza PEAD per gli anni 2012 e 2013 che prevedono lo stanziamento di 500 milioni di euro all’anno; all’Italia per l’anno 2013 sono stati assegnati 98 milioni di euro; il 31 dicembre 2013 si conclude il PEAD; la Commissione europea ha proposto che, nel quadro finanziario pluriennale UE per il periodo 2014-2020, il programma d’aiuti alimentare debba essere coperto non più con i fondi della politica agricola, ma con quelli della coesione sociale, Fondo sociale europeo, prevedendo 2,5 miliardi di euro per i 7 anni della nuova programmazione finanziaria comunitaria. Alcuni Paesi europei hanno sostenuto che il programma dovesse rientrare nell’ambito delle politiche sociali, di competenza quindi dei singoli Paesi e non più con la cabina di regia dell’Unione europea, con il rischio di scatenare una guerra tra poveri; il 12 giugno 2013 il Parlamento europeo, in seduta plenaria, ha votato a favore della nuova proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al finanziamento del nuovo Fondo di aiuti europei agli indigenti, FEAMD, che andrà a sostituire il programma di distribuzione delle derrate alimentari PEAD. Il Fondo sarà costituito da una base obbligatoria di finanziamento di 2,5 miliardi di euro e gli Stati membri possono decidere di aumentare le proprie allocazioni di un ulteriore miliardo di euro su base volontaria. Il Consiglio europeo del 27-28 giugno 2013 ha sollecitato la necessità di adottare in tempi rapidi tutti i dossier strettamente correlati al quadro finanziario pluriennale UE e, pertanto, tutte le istituzioni hanno insistito per un rapido accordo anche sul “Fondo indigenti”, affinché lo stesso diventi operativo tra la fine del 2013 e gli inizi del 2014; l’articolo 58 del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, ha istituito il “fondo per la distribuzione delle derrate alimentari alle persone indigenti”, gestito da AGEA, con lo scopo di raccogliere le derrate alimentari, a titolo di erogazioni liberali, dagli operatori della filiera agroalimentare e da organismi rappresentativi dei produttori agricoli o imprese di trasformazione dell’Unione europea, al fine di far fronte alle eccedenze alimentari e consentire, conseguentemente, la redistribuzione sul territorio nazionale al fine di ridurre lo spreco alimentare.

*Mozione presentata in Senato da Dario Stefano

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