Principale Arte, Cultura & Società Si parte da Cecco lungo Dante e si arriva a Franco Battiato

Si parte da Cecco lungo Dante e si arriva a Franco Battiato

Di Pierfranco Bruni

La musica ha il suo silenzio nelle parole. Le parole sono già musica quando vivono nel gioco infaticabile del ritmo. Ritmo rito. La ripetizione è un rito.
Da Cecco Angiolieri a Franco Battiato. Roberto Vecchioni l’ho conosciuto con la ormai antica “Luci a San Siro”, ma anche con quel battuto sanremese di “L’uomo che si gioca il cielo a dadi” che ho sempre dedicato a mio padre molti e molti anni fa quando navigavo la mia prima giovinezza tra i banchi del liceo in un paese sperduto di un Sud lontano.

Poi l’ho costantemente seguito e mi ha accompagnato. Oggi riascolto con passione due sue canzoni che mi hanno lasciato un segno (una questione forse personale, ma chi non ha questioni personali legati alla musica?) dentro l’anima. Mi riferisco a “Che dire di lei” e soprattutto a “Mi manchi”. Oltre a “Gli anni” e a “Milady” che sono stati il cielo sul quale ho disegnato segreti e tensioni nel corso di queste mie stagioni.
Mi hanno accompagnato e molte di queste canzoni sono dentro le pagine di un mio romanzo nel quale si racconta di un amore vissuto e finito. Sino al testo “Alighieri” in cui la continuità poetica su Dante diventa il tramite per penetrare i linguaggi poetici. Testo che però, rispetto ad altri, non mi convince proprio poeticamente. Ma ciò è possibile comprenderlo soltanto se si parte da un presupposto centrale che è quello del legame tra canzone e poesia in Vecchioni.
Dante è come Pavese, come la Merini, come Pessoa, come Rimbaud, come Pascoli, come Penna in Roberto? È un passaggio obbligato. Non puramente esistenziale come è stata Alda Merini. Vecchioni è come se obbligasse a ripensare Dante. Propone delle lezioni anche teoriche. Modello diverso rispetto a De André, Branduardi (sul quale sto lavorando in questa stagione, e Battiato. Propone delle lezioni su Dante. D’altronde si lascia intervistare proprio su come leggere Dante oggi, ma credo che il discorso parametrale linguistico non può essere soltanto teorico o didattico, ma piuttosto spontaneo.

I tocchi di alcuni versi sono incisi metaforici che vivono con i personaggi ricordi e nostalgie. Roberto l’ho incontrato in anni lontani in provincia di Lecce. Una serata particolare che continua ad essere dentro di me. C’era stata la pioggia. Ma il suo concerto per pochi si tenne subito dopo. Una fantasia di colori e tanta nostalgia. Coriandoli di emozioni. Poi in un altro concerto in teatro (“Gli anni ti inseguono quando sei solo Gli anni ti parlano… Gli anni si impigliano e si aggrovigliano…”).
Su Fabrizio De André ho scritto due libri definendolo come il cantore del sogno del Mediterraneo. Ho seguito alcuni suoi concerti. L’ho conosciuto a Taranto in un concerto di molti anni fa. Un incastro di voci e di immagini. Da De Andrè a Vecchioni. Quelle canzoni riportano pezzi di una recita che ho vissuto in uno scenario indefinibile e indimenticabile nonostante gli anni che sono passati. Un incontro, tra un racconto d’amore e il tempo, che resta “dentro gli occhi”. Parole nostalgie nel vento della musica.
In una intervista alla domanda: Perché leggere Dante è importante? Vecchioni ha risposto: “Tra i mille motivi due mi sembrano essenziali: la nascita ufficiale del linguaggio poetico italiano e l’insuperato trasporto lirico nell’esame dell’animo umano. Dante “inventa” una lingua dai frammenti di ballate regionali superando il tema fisso dei trovatori; il male, la punizione e il perdono diventano valori universali e le ragioni del parlar poetico si sovrappongono alla razionalità dei “trattati filosofici” svelando l’uomo nel suo divenire terreno e nella sua ricerca di Assoluto, laddove era stato schiavo e manierato cantore di una microscopica immanenza”. Su questo non concordo, sono piuttosto un crociano, ma entriamo in un altro discorso.
Credo, comunque, che l’influenza di Dante nella canzone d’autore debba essere interpretata non in forma teorica o in una tesi della prassi ma in un “esercizio” puramente letterario. Sono convinto che i maggiori cantautori che sono entrati nel costato dantesco restano De André (partendo da Cecco Angiolieri) per l’immensa ricerca su tutta la letteratura internazionale, Battiato per aver saputo incrociare (si pensi a “Sesamo”) Oriente ed Occidente in un Dante esoterico e Branduardi per il valore del sacro che ha immerso nel linguaggio. Ma Vecchioni resta comunque un per no centrale in una linea che è letteraria.
Si pensi al suo entrare direttamente nella letteratura con i suoi libri. Viaggi del tempo immobile di Roberto Vecchioni. Un libro di racconti. O un romanzo. O un diario nel tempo della memoria dove gli archetipi hanno una loro valenza onirica e la frammentarietà del contemporaneo è solo esistenza e non storia.

Un ottimo testo. Non c’è discordanza da questo Vecchioni della parola scritta e quella della parola scritta cantata. I temi che non problematicizzano l’esistente ma ci raccontano la vita (non la storia, attenzione) sulle ali di velluto della fantasia che ci fa navigare nel mare dei ricordi.
Uno degli incontri fondamentali che incide sulla pagina e nel canto è il rapporto tra la memoria (è sempre un canto di memoria) che recita se stessa e la nostalgia di cui si ha bisogno per essere nel presente. Quindi il punto sostanziale è il tempo. Tra i libri che ha scritto Vecchioni e le sue canzoni, già si diceva, non si avvertono sfilacciamenti.
Il filo della malinconia è sottratto da una sottile ironia ma c’è sempre, comunque, un andare e ritornare tra il perduto e il ritrovato. D’altronde, per ritornare a Vecchioni, l’autore de El bandolero stanco conosce molto bene la letteratura e nei suoi testi ci sono segnali precisi che vanno da autori come Pavese (si pensi a “Verrà la notte e avrà i tuoi occhi”), a Pascoli, da Rimbaud alle “foglie morte”, da Alda Merini a Penna, dalla letteratura greca a quella latina e quindi sino a Dante. Sono le metafore che creano orizzonti di senso. Metafore che sono lame appuntite nella nostra consapevolezza di esistere e di essere uomini. E ora mi confesso. Fuori dalle righe. Ma ci sono passioni che catturano e danno vigore ai giorni rituffandoci in tutto ciò che abbiamo vissuto.
Da “Luci a San Siro” in poi sino a Le parole non le portano le cicogne. Da “El bandolero stanco” a Viaggi del tempo immobile. Da “Milady” a “Canzone per Alda Merini”. Un viaggio nel cerchio magico della parola – mistero. Una parola che recupera la tradizione superando, almeno su questi tasti, l’impossibile ideologia che permea la vita ma la vita è più grande di ogni ideologia perché ci permette di vivere come uomini e sognare collocando i sogni oltre ogni realtà. Collocando la realtà nella vita di ogni giorno e i sogni nel sempre.

“Ma gli uomini non sono piante, sassi, montagne. Gli uomini sono frammenti di una memoria divina che li perseguita e li scuote, e nessun cassetto, nessun contenitore o archivio può catalogarli…”. Questa memoria divina è un trasporto che ci fa scavare nella coscienza ma è anche un intraprendente attraversamento nel Noi e nell’Io che messi insieme formano il mosaico del tempo – amore, del tempo – nostalgia, del tempo – ascolto.

Sia la canzone che la pagina narrativa sono un ascolto. I testi narrativi, di Vecchioni, citati (editi da Einaudi) si lasciano non solo leggere ma ascoltare. Hanno un ritmo, un battuto sulla parola, un gioco di sensazioni che sono emozioni. E’ come se avessero, le parole di questi due libri, una musica segreta interna ad ogni frase, interna ad ogni concetto. Una musica che non sorprende ma cattura. Le due operazioni, quella musicale e quella narrativa, si completano. In fondo qui si racconta sempre la vita.
Il sogno è una costante. L’offerta delle parole è nel gioco del dire che diventa dare, offrire, regalare messaggi e i messaggi che si avvertono e si colgono sono, appunto, quelli che hanno un credito sentimentale. E tra questi sentimenti campeggia l’amore. Già, Vecchioni racconta l’amore. Si legge in Le parole non le portano le cicogne: “Quella volta, ingenuo come un adolescente, credetti che fosse più difficile amare che essere amato. Ora so che non è così. Amare dà un potere senza confini che non conosce spaventi e ritirate; essere amati è un continuo bivio e raddoppia i sussulti e le tenerezze; hai sempre paura di sbagliare e ne esci battuto sempre, perché, per quanto tu riesca a dare, non colmi mai la misura”.
Si pensi alle cantate (o alle ballatette) di Guido Guinizelli, di Guido Cavalcanti o dello stesso Francesco Petrarca. Alcuni cantautori hanno ripreso il modulare di quel recitate cantato. Dal Fabrizio De André che propone Cecco Angiolieri a Roberto Vecchioni di Jacopone da Todi (ma a Jacopone si era rifatto anche De André). Solo alcuni esempi. Ma c’è una tradizione trovadorica e un innesto di madrigali nella canzone d’autore che è sorprendente. La ballata e la romanza resta una testimonianza fondamentale all’interno anche di un percorso folklorico che rimette in gioco proprio un cantico popolare. Dante di venta canto popolare in De André e ricerca linguistica in Vecchioni.
D’altronde il rapporto tra poesia e musica è quasi sempre accompagnato da due dati. Il dato creativo e la ricerca. Il canto creativo è un fatto onirico, misterico, fantastico. La ricerca ha sempre derivazioni etniche, ovvero proviene da una cultura popolare ma va verso la definizione di una identità e di una riproposta delle radici linguistiche e antropologiche. Resta emblematico il gioco espressivo (dalle filastrocche ai canti religiosi o l’introduzione di alcune tipiche forme dialettali) e le mediazioni antropologiche (l’affermazione delle identità o rilettura omerica del mito) sul tema del Mediterraneo che hanno sottolineato autori come De André o come Franco Battiato o Franco Califano, sul quale ho dedicato un libro e un servizio sulla Rai.
Questa poesia – canto ha radici profonde. Dalla musica rinascimentale (il 1500 è anche l’epoca delle villanelle) al rapporto tra arte colta e letteratura popolare. Nella poesia – canto degli autori degli anni Sessanta ci sono radicamenti, chiaramente, antichi. La poesia entra dentro la canzone con poeti e scrittori come Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio, Gioacchino Belli, Roberto Bracco, Giuseppe Marotta. Una canzone che aveva uno stile letterario. Ma alla base c’è il Dante delle “Rime sparse”.
Proprio negli anni Sessanta molti autori italiani hanno una formazione che proviene da poeti e chansonier francesi e spagnoli. Da Georges Bressens a Jacques Brel, da Boris Vian a Vinicius de Moraes. Qui si registra una vera e propria rivoluzione linguistica che sboccia in cantate folk, in proposte di forme jazz, in ballate, in percorsi ritmici segnati sulla ricercatezza colta della rima.
I “cantautori” degli anni Sessanta ma anche quelli immediatamente successivi hanno un bagaglio letterario che permette di usare la parola poetica con strumenti ben calcolati e studiati sulla musica. Letteratura e musica è un raccordo di grosso spessore culturale. E’ Fabrizio De André che sottolinea: “La canzone è un testo cantato, poi la musica può essere più o meno bella, tanto meglio se è bella, ma deve accordarsi soprattutto con il testo”.
Si sottolineano, così, oltre all’esperienza fondante di Fabrizio De André, atmosfere crepuscolari e decadenti (Luigi Tenco), i cui radicamenti brectiani e soprattutto francesi (Boris Vian in particolare) sono riferimenti non tanto musicali quanto letterarie.
Si avvertono ancora quelle malinconie gozzaniane delle piccole cose che colorano il quotidiano (Bruno Lauzi) e costruiscono scenari in una leggera poetica. Si intravedono “perlustrazioni” quasimodiane e derivazioni madrilene (Sergio Endrigo) che hanno un senso lirico marcato.
Si intrecciano favola e storia (Francesco De Gregori) sulla linea di una presenza quasi memorialistica che tocca del realismo. Si verificano spazi nei quali si avverte un racconto in musica (Francesco Guccini) simile alla tradizione di una poesia racconto che si mostra con tutta la sua dimensione narrante.
Si avvertono viaggi in una tensione che è filosofica (Franco Battiato) ma che ha anche una forte manifestazione poetica (magica e archetipica), la cui lezione di un percorso di cultura classica è ben presente.
Si assorbano codici poetici che hanno un intercalare recuperato dalla lirica moderna e classica (Roberto Vecchioni), il cui legame è tutto giocato tra amore e tempo in un girotondo di sentimenti che restano a blindare il raccontare la storia di un uomo tra passato e futuro.
Il rapporto tra poesia e musica, dunque, qui si fa sempre più intenso. Un recitativo cantato che realizza un rapporto interattivo tra la musica delle parole e i suoni – simboli che la musica stessa emana. La parola come immenso, come un destino che vive dentro l’essere della comunicazione. Il linguaggio della parola è dentro questo processo che è essenzialmente onirico. Le parole creano immagini, atmosfere, disegni, silenzi in un continuo ascolto.
Il linguaggio che crea è, appunto, il linguaggio dell’immenso. L’immenso che si fa suono. Aver recuperato alla parola il suono e la sua memoria è aver restituito tensione e identità al linguaggio. Il linguaggio si ritrova nell’armonia. La parola e il suono. I sentimenti, in fondo, non sono segni mascherati. Sono delle magie che ci portiamo dentro e ci fanno rivivere il tempo.
Il linguaggio non sta al di fuori di noi. E’ dentro di noi e continua a vivere dentro di noi e con noi. Il linguaggio stesso diventa nostalgia. Forse è la metafora del “lanciatore di coltelli” cantata e recitata da Roberto Vecchioni. Perché la poesia (e la distinzione tra poesia e canzone, quella che è poesia o che nasce dalla poesia o che si trasforma in poesia, ma il discorso vale anche catapultandolo) è bellezza. Senza quegli occhi che riportano in me vento e mare, terra e isola cosa ne farei della poesia o della musica.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”: aveva ragione Pavese. “Per i tuoi larghi occhi che non piangono mai” e non aveva torto Fabrizio De André. Ma il linguaggio è un’alchimia che ci fa sprofondare nei meandri e poi ci risolleva. Ma il tempo è lì. Che peccato invecchiare. “Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono”. Ecco Franco Battiato. La straordinaria fantasia che è il sangue e la pelle del linguaggio. Il linguaggio come ogni altra cosa invecchia.
E’ vero ciò che afferma Raffaele La Capria: “Quando si degrada il linguaggio ci degradiamo anche noi che lo parliamo… Come il linguaggio anche le emozioni si logorano, si logorano per l’assuefazione… La poesia restituisce al linguaggio e all’emozione l’intensità della ‘prima volta’. E’ la meraviglia di fronte alle cose. La meraviglia di stare al mondo” (inLetteratura e salti mortali con Il sentimento della letteratura). Il linguaggio di Dante, al di là di ciò che possa pensare Croce, resta centrale nel viaggio della canzone d’autore.
Angelo Branduarti resta fondamentale nel raccogliere il linguaggio dantesco. Ma la sua presenza è costatante in De André e Battiato. In altri, come Guccini, diventa sperimentazione. Certo Vecchioni resta un mio compagno di strada. Non come De André o Battiato o Califano o Tenco. Ma la sua visione letteraria classica è un intreccio che lo pone dentro la tradizione. Gli altri autori citati sono nelle dimensione eretica. Non saprei dire chi ha innovato di più. Ma è certo che non farei distinzione, in questi casi specifici, tra poesia e non poesia. Forse Dante della “Vita Nova” puntava proprio a questo. Riascoltando Franco Battiato si vive dentro un ovattato medioevo che tocca il mondo arabo gli orienti e le danze balcaniche.

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