Principale Politica Diritti & Lavoro I social disvelano il razzismo che c’è o lo alimentano?

I social disvelano il razzismo che c’è o lo alimentano?

Eravamo convinti che Twitter e Facebook fossero lo specchio della società. Ma forse stanno cominciando a modificarla. Ogni argomento ormai è buono per polarizzare le opinioni e scatenare risse verbali. Possiamo evitare di diventare il peggio di noi?

Riccardo Luna

L’aria che tira sta diventando sempre meno respirabile. Qualche giorno fa mi sono trovato per caso in mezzo ad una specie di rissa digitale su Twitter. Non ricordo più bene neanche cosa avessi twittato, di solito una notizia. Twitto sempre meno rispetto a qualche anno fa quando mi sentivo investito da una sorta di missione di twittare a cadenze regolari per dire la mia sul digitale e per rilanciare le cose migliori che leggevo in giro. A un certo punto però mi è sembrato tutto esagerato, la missione digitale, la cadenza oraria, e in generale quel senso di entropia che si creava in rete. Commenti a caso, reazioni scollegate dal merito. Insulti di troppo. A prescindere.

Twitto meno, insomma, e solo cose davvero rilevanti, per non alimentare confusione. Ma a volte non basta nemmeno questo. Insomma, l’altro giorno faccio un tweet, qualcuno lo rilancia e parte una rissa verbale che dura ore. Inizia con un tale che allude a non so quali legami occulti con la casta di chi aveva retwittato, lei che replica dura, un terzo che dice che ha le prove dei legami occulti e che la signora in questione la si può incontrare al bar tal dei tali di una certa città ogni giorno alla solita ora, lei che si infuria perché quel tweet sembra un invito ad andarla a cercare per picchiarla in effetti; e a quel punto decine e decine di altri sconosciuti che intervengono, si indignano, alcuni segnalano il tweet alla polizia postale e va avanti così per ore. Come in un saloon del Far West.

E questa rissa da saloon va in scena tutti i giorni, infinite volte. Basta un qualunque pretesto. Con una violenza verbale che è solo l’anticipazione di quella fisica, dei pestaggi agli immigrati che si ripetono, di quelli che sparano dal balcone col fucile ad aria compressa modificato, degli insulti ai camerieri di colore nei bar e nei ristoranti. Mentre i ministri twittano a tutto spiano slogan tonitruanti conditi di emoticon ammiccanti, e licenziano via Facebook manager raccomandati messi da quelli che comandavano prima per mettere al loro posto altri manager raccomandati; e naturalmente se loro gridano sempre perché il popolo dovrebbe commentare sottovoce? Se sei a un concerto punk-rock, non rispondi come in un minuetto di Boccherini. E’ impossibile.

In parte la rete è lo specchio della società, ma ho come l’impressione che la rete, e in particolare Facebook e Twitter, che non sono Internet ma due social network molto diffusi, la stiano modificando la società: stiano modificando il nostro modo di pensare, di comunicare e quindi di agire. Tirano fuori il peggio di noi. Quando è nato il web sognavamo una piattaforma per conoscere e conoscersi, approfondire, costruire ponti fra le persone. In realtà su certi social network sta emergendo una società fatta di muri dietro i quali ci guardiamo incattiviti sempre pronti alla rissa, totalmente indifferenti al merito delle questioni.

Ingenuamente sognavamo che grazie alla rete giorno dopo giorno tutti potessero elevarsi e far parte di una sorta di cenacolo globale dove provare a risolvere i problemi del mondo, uniti nelle diversità. Ci siamo ritrovati in un gigantesco saloon dove lo sceriffo invece di calmarci ci incita a menare le mani. Davvero è questo il nostro destino? O possiamo ancora fermare il mondo, come sostiene Jonathan Franzen, e provare a invertire la rotta?

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