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Morire d’amianto, legalmente

Intervista a Laura Mara di Prof. Roberto Suozzi

Sappiamo, da moltissimo tempo che l’amianto è una sostanza che può provocare il cancro negli esseri umani, tumore ai polmoni e mesotelioma e il mesotelioma peritoneale, rappresenta circa il 20-30% dei mesoteliomi. Questo è un tumore che origina dal mesotelio, cioè dalle cellule parietali del peritoneo, membrana sierosa che tappezza le pareti della cavità addominale e pelvica.

Le donne possono essere colpite da tumore dell’ovaio dovuto ad amianto anche stando in casa, scuotendo gli abiti da lavoro prima di lavarli, inalano così le pericolose fibrille di amianto. In uno studio, pubblicato su Occupational and Enviromental Medicine, ricercatori britannici hanno evidenziato che l’amianto può aumentare ictus, crisi cardiache e infarti.

Va affermato con forza che la battaglia contro l’amianto riguarda la salute degli operai, dei lavoratori, delle donne, ma anche del territorio e dell’ambiente. Non possiamo sapere, sia per i mesoteliomi che per altre forme tumorali, quando la cellula del nostro organismo alla fase benigna diventa maligna.

Va anche detto che le fibre di amianto, derivato dalle vecchie tubazioni in cemento-amianto (che si stanno disgregando) potrebbero altamente inquinare l’acqua potabile, le condutture dell’acqua; le tubature in amianto vengono riconosciute come un grande rischio per la nostra salute.

Tumori del tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, colon-retto) vennero già associati all’amianto negli anni ‘50 e attualmente le fibre dell’amianto e l’acqua potabile sono oggetto di attenti studi anche per quanto riguarda i tumori della laringe. L’osservazione, che proviene da numerosi lavori scientifici è che chi beve acqua contaminata, dalle fibre di amianto, è esposto al rischio di tumori dell’apparato gastro-intestinale.

Nella risoluzione del Parlamento Europeo del 2013, sulle minacce per la salute sul luogo di lavoro legate all’amianto, si dice testualmente:

“…anche diversi tipi di tumori causati non soltanto dall’inalazione di fibre trasportate nell’aria, ma anche dall’ingestione di acqua contenente tali fibre, proveniente da tubature in amianto, sono stati riconosciuti come un rischio per la salute e possono insorgere dopo alcuni decenni, e in alcuni casi addirittura dopo oltre”.

Vi sono oggi, in alcuni procedimenti giudiziari che trattano le patologie e le morti causate dall’amianto, delle sentenze che lasciano il cittadino veramente basito e provocano amaro dolore, aggiunto a quello della perdita di un loro caro. In una parola la fiducia nella giustizia è messa fortemente in discussione. La nostra costituzione, per quanto riguarda la tutela della salute è chiara e, l’articolo 32, afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. ”

Il che indica l’importanza del miglioramento della qualità della vita che, ovviamente, si deve estendere a tutti quegli elementi, o sostanze nocive, ambientali, o causate da terzi, che “possono ostacolarne il reale esercizio”.

Questo articolo deve coinvolgere, direi obbligatoriamente, non solamente i cittadini, i medici, ma anche l’intera classe giuridica, magistratura compresa. Il Senatore Felice Casson, durante la sua introduzione, al convegno tenutosi al Senato della Repubblica, il 13 Dicembre del 2017 dal titolo “Fumus mali iuris”, organizzato dal Coordinamento Nazionale Amianto e Aiea Onlus, ha anche parlato di questo.

Il senatore Casson si è soffermato su quanto difficile sia la “[. . .] trattazione delle questioni di amianto dal punto di vista civilistico, amministrativo e penale… noi abbiamo visto delle sentenze di Cassazione che ci mettono un po’ in difficoltà […].”

Durante questo convegno è intervenuta l’avvocatessa Laura Mara che ha una grandissima esperienza processuale sul tema di amianto e ci ha concesso una importante intervista.

Sappiamo che la respirazione delle fibre di amianto, o asbesto, può determinare gravi malattie che si manifestano dopo molto tempo.

L’amianto, responsabile di quella infiammazione ai polmoni chiamata asbestosi, è stato classificato sostanza che può provocare il cancro negli esseri umani, tumore ai polmoni e mesotelioma; e diversi studi hanno anche suggerito l’associazione tra esposizione ad amianto e tumori gastrointestinali e colon rettali. Sembra poi esserci un elevato rischio di cancro anche per trachea, laringe, reni, esofago e cistifellea.

Le fibre dell’amianto, molto sottili, possono penetrare attraverso le vie respiratorie, non solamente nei polmoni, e raggiungere l’alveolo polmonare e formare, col tempo, degli essudati della pleura inguaribili. Sono morti annunciate, che avverranno anche a distanza di anni.

Il mesotelio è simile a una finissima pellicola, un sottile tessuto, che ricopre la parte interna del torace (pleura), dello spazio attorno al cuore (pericardio) e dell’addome (peritoneo). Quando un tumore nasce dalle cellule del mesotelio prende il nome di mesotelioma, e non sempre è maligno ma è in progressivo aumento; quando lo è, è uno dei più pericolosi che si conosca poiché la comparsa della sintomatologia si può avere dopo lungo tempo (anche quarantacinque-cinquanta anni).

Il mesotelioma può coinvolgere i polmoni, il peritoneo, il fegato, la cistifellea, la milza, l’intestino e la tunica vaginale del testicolo. Non esiste la cosiddetta dose-soglia (soglia di rischio) per l’amianto, può bastare una sola fibra per ammalarsi; ma il rischio aumenta con il tempo di esposizione e con la quantità inalata, ciò vale soprattutto per i lavoratori a diretto, o indiretto, contatto con la sostanza.

Buongiorno avvocatessa, grazie per averci concesso questa intervista. Per venire subito al punto. Noi siamo consapevoli di quanto affermava il senatore Felice Casson (in riferimento a una sentenza in Corte di Appello a Venezia): “La costituzione dovrebbe imporre un comportamento diverso, costituzionalmente corretto”. Ora in maniera cruda è giusto parlare, nel caso di morte di amianto, di “omicidi colposi”? E possiamo parlare, sulla base di alcune recenti sentenze nei processi di amianto, di sentenze “non costituzionalmente orientate”?

Gentile Professore, buongiorno a Lei. La sua domanda coglie nel segno. Non solo è corretto, ma è doveroso, dal punto di vista giuridico e sociale, inquadrare gli eventi mortali, causati dall’esposizione ad amianto sui luoghi di lavoro, come omicidi colposi: non a caso nei capi di imputazione formulati dai PM all’interno dei diversi processi celebrati in Italia ritroviamo proprio le contestazioni ex art. 589 c. p., con l’aggravante di cui al II comma per aver commesso il fatto con violazione della normativa (speciale e generica)  per la prevenzione degli infortuni/malattie professionali, che prevede un inasprimento della pena della reclusione da due a sette anni. Purtroppo le ultime sentenze di merito milanesi, confermate recentemente dalla Corte Suprema di Cassazione, hanno accolto una “tesi scientifica” che, da un lato, confonde il piano della causalità con quello propriamente biomedico, legato al processo multistadiale di oncogenesi del tumore, e, dall’altro, impone all’Accusa Pubblica e Privata di fornire una vera e propria prova impossibile (prova diabolica) in punto di causalità individuale. Il tutto senza considerare l’arresto conforme della comunità scientifica internazionale in punto di teoria dose-risposta per il mesotelioma pleurico (cfr.  consensus di Helsinky 1997; Monografie della IARC; Linee Guida 2010 della European Respiratory Society of Thoracic Surgeons for the manegement of pleural mesothelioma; Documento ufficiale del 1999 della Federazione francese dei Centri di Lotta contro il Cancro; OSHA Federal Register del 1986 e da ultimo, III Consensus di Bari del 2015). Se così numerosi consessi (anche governativi) nazionali e internazionali si sono espressi a livello ufficiale nei termini sopra descritti, è logico inferire (altra via non esiste) che tali enunciati rappresentino, all’esito di un’analisi critica condotta ai massimi livelli di competenza ed imparzialità, la sintesi del sapere scientifico più diffuso ed accreditato in materia.

In questo senso, possiamo parlare di recenti sentenze non costituzionalmente orientate: si richiede cioè di provare l’inizio e a fine del periodo di induzione (iniziazione + promozione) per essere certi che, in quel periodo temporale, vi sia stato proprio quel determinato imputato a gestire l’azienda.

Si richiede cioè una prova che non può essere fornita, perché non attiene al piano della causalità individuale, in senso stretto, ma al processo biologico di insorgenza e trasformazione della patologia asbesto-correlata, e segnatamente del mesotelioma pleurico. Processo che, come per tutte le altre formazioni tumorali, non può essere registrato con strumenti fenomenici.

Se si accogliesse una simile interpretazione, sorgerebbero serie questioni di legittimità costituzionale dell’art. 589 c. p. in rapporto all’art. 3 della nostra Costituzione, in quanto vorrebbe dire che il reato di omicidio colposo per violazione delle normativa sulla sicurezza sul lavoro non coprirebbe le patologie asbesto correlate, e più in generale, non coprirebbe più le malattie neoplastiche professionali (che necessitano di un lungo periodo di tempo prima della loro comparsa e la cui cancerogenesi non è registrabile con dati
fenomenici), creando in tal modo una falla nel sistema del diritto penale: vorrebbe cioè dire che l’art. 589 c. p. si applicherebbe solo ai casi di infortunio sul lavoro (che è reato istantaneo) e non anche alle malattie professionali neoplastiche (che costituiscono reati-evento a consumazione lenta e prolungata nel tempo, nei quali gli steps di mutazione cellulare non sono MAI verificabili nel momento in cui si producono all’interno dell’organismo umano).

Il che, come facilmente intuibile, violerebbe il principio di uguaglianza sancito dalla nostra Costituzione che non consente una tutela giudiziaria differente a seconda del momento di consumazione dell’evento rispetto alla condotta posta in essere dall’agente.

Intravvedo oggi la possibilità di nuovo orientamento, che valuto pericoloso, di una parte fortunatamente esigua della giustizia. Spesso consulenti degli imputati, nei processi di amianto, hanno operato in maniera impropria, elaborando delle posizioni – la teoria della “causalità individuale” o addirittura “collettiva” – che in realtà non hanno nulla di scientifico. Qual è il suo pensiero in merito?

Esattamente. Le difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel tempo un castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che si sono spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del privato cittadino. In altri termini, si tenta, in maniera erronea, di calcolare una mancata anticipazione della latenza nei singoli soggetti (persone offese) senza tenere conto del fattore dose di esposizione e delle mansioni effettivamente espletate dai lavoratori in vita, confondendo i dati sulla latenza media (che attengono a studi di coorte) con quelli relativi alla latenza individuale di ogni persona che, in quanto tali, sono soggetti a diverse variabili.

Mi scusi se insisto sul tema, ma quello che più mi ha fatto indignare è la storia della “causalità”. Ci tengo a sottolineare che mio padre, ferroviere, morì nel 1990 per mesotelioma provocato dall’esposizione all’amianto, e mio zio Donato emigrato in Australia, morì nel 2005 per a stessa causa, lavorando alle massicciate delle ferrovie. Come lei ha detto al convegno:

“Un dato è certo: le difese degli imputati, tramite i loro consulenti, hanno costruito nel tempo un castello di scorrette e finanche inesistenti teorie scientifiche che si sono spinte oltre la logica umana, oltre la comprensione del giurista e del privato cittadino. Faccio riferimento al tema della causalità individuale nei processi penali che, secondo alcuni recenti orientamenti, anche della Cassazione, deve essere accertata con strumenti in realtà inesistenti ella realtà fenomenica-scientifica-giuridica”.

Dal punto di vista strettamente giuridico, quanto pesa questa “causalità individuale” nei processi penali? Come può essere accettata negli atti processuali una tesi presentata da “tecnici” di parte che non svolgono neanche la professione medica? Che cosa è questa causalità individuale?

Il problema sta a monte e purtroppo molti di questi consulenti tecnici svolgono la professione medica ai più alti livelli, anche universitari. In sostanza oggi la magistratura, accedendo a questa interpretazione scientifica  non corretta, esige che venga data la prova (con che strumenti non è dato capirlo) del momento esatto in cui la cellula da benigna inizia a progredire verso la malignità, nonché a successiva prova della fine di questo lunghissimo) periodo multistadiale per poter imputare la responsabilità penale proprio a quel dirigente che, in quel preciso momento (coincidente con la mutazione cellulare della vittima), gestiva concretamente la società.

Purtroppo, come noto, non esiste un cronometro per i tumori che possa fermare l’istante in cui la cellula inizia a proliferare verso la malignità! Questo è il limite della scienza medica applicabile a qualsivoglia malattia tumorale.

Non per questo è legittimo dedurre che tale (logica) incertezza biomedica si possa tradurre in incertezza sul nesso di causa: mai la Cassazione ha sostenuto che nei processi per patologie tumorali (la cui evoluzione interna all’organismo umano non è evidentemente registrabile con nessuno strumento), che formavano oggetto di imputazioni per omicidi colposi, vi fosse stata la violazione della regola di diritto della condanna oltre ogni ragionevole dubbio. Ragionando in altro modo, lo si ripete, si arriverebbe alla conseguenza, evidentemente non accettabile, di non poter più celebrare processi per omicidi colposi consistiti in malattie professionali neoplastiche incurabili ed infauste, frutto di comportamenti (soggettivamente e oggettivamente) colposi posti in essere dai diversi datori di lavoro, che, nel tempo, si sono succeduti nelle diverse posizioni di garanzia all’interno di una determinata realtà industriale.

Appare pertanto condivisibile l’orientamento di legittimità secondo il quale è impossibile la conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti (…) poiché il Giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi (cfr. sent. Franzese, Cass. Sezioni Unite, n. 30328/2002) e dunque potrà ritenersi provata l’esistenza di un nesso causale tra condotta umana, commissiva e anche omissiva, ed un evento quando sia ragionevolmente da escludere l’intervento di in diverso ed alternativo nesso causale.

La mia impressione è che si stia facendo in modo di realizzare una “rete di protezione giuridica” per le imprese, per facilitare la loro assoluzione nelle cause per malattie professionali, impedendo anche il riconoscimento economico del danno. Forse le mie sono semplici illazioni, ma non sarebbe il caso di costruire delle Class Action, soprattutto per quanto riguarda le grandi imprese? In fondo, come lei ha ricordato nel suo intervento nel convegno: ”[. . .] più la persona rimaneva esposta più si ammalava dopo […], più sei esposto all’amianto e più ti fa bene perché ti ammali dopo. ” Qual è il suo pensiero in merito Molte delle ultime sentenze assolutorie intervenute s u questo specifico tema hanno, lo ripeto, confuso il piano della causalità individuale (nesso di causa sulla singola persona offesa del processo) con quello della causalità generale (nesso di causa verificabile su una determinata coorte di soggetti studiata dagli epidemiologi che hanno poi elaborato una vera e propria legge scientifica di copertura), addivenendo anche ad una indebita commistione fra piano biomedico e piano causale.

L’esempio classico riportato in queste pronunce è proprio quello da Lei ricordato: in maniera non corretta si prende in esame solo l’inizio dell’attività della singola persona offesa e il momento dell’insorgenza della patologia per provare il contrario di quello che afferma la comunità scientifica, ovvero che a maggiore esposizione corrisponderebbe una latenza più lunga. Questi calcoli e queste verifiche non sono attendibili perché non considerano il fattore dose (concentrazione di fibre di amianto) e la mansione effettivamente espletata dal lavoratore. Potremo quindi avere una persona esposta, per un tempo breve, ad una concentrazione elevatissima di fibre di amianto che si ammala in un tempo minore (latenza più corta) rispetto ad un soggetto che pur essendo stato esposto per un periodo più lungo, è stato sottoposto ad una concentrazione di asbesto inferiore, proprio perché svolgeva mansioni differenti dalla prima. E’ quindi chiaro che il fattore dose gioca un ruolo altrettanto importante, così come il tempo. Ma se nel calcolo non si tiene in considerazione la concentrazione di fibre/polveri di amianto cui il lavoratore è stato esposto (dose) si avranno dei risultati inficiati ab origine, in quanto non ha alcun senso, perché non esprime una regola scientificamente validata, parlare solo del tempo in funzione dell’esordio della malattia.

L’idea di una Class Action è certamente percorribile, ma in sede civile e comunque non sposterebbe l’asse del problema della responsabilità penale dei singoli imputati che è e resta una responsabilità personale.

Credo a questo punto che l’unico passo percorribile alla luce di queste sentenze possa essere il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dei diritti inviolabili dell’Uomo e della Donna, quali quelli  alla vita ed alla salute (art. 2 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), nonché per violazione della regola dell’equo processo (art. 6 Convenzione cit. ), secondo la quale non può essere richiesta ad una sola parte, nel rispetto del principio del contraddittorio, una prova impossibile da fornire in quanto inesistente sul piano scientifico, biologico e giuridico.

Convengo con lei avvocatessa. Una Class Action è sicuramente importante, è certamente percorribile ma non inciderebbe e non sposta il punto focale, come lei ha affermato, della responsabilità penale di ogni imputato, che per l’appunto è di ognuno di loro, è personale. Sono perfettamente convinto che vada fatto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la European Convention in Human Right. Tengo a precisare che questa Corte Internazionale, alla quale aderiscono i membri del Consiglio d’Europa, fu istituita nel 1959 non è affatto una istituzione che fa parte dell’Unione Europea. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sede in Francia, a Strasburgo, esattamente nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo. L’Unione Europea la Corte di Giustizia (CGUE) ha sede nel Lussemburgo, esattamente nel Palais de la Cour de Justice a Lussemburgo.

La ringrazio molto.

CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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