Principale Politica Diritti & Lavoro L’ Etno – antropologia nei beni culturali

L’ Etno – antropologia nei beni culturali

Il nuovo libro di Pierfranco Bruni: “Antropologie e metafisica delle culture”. Le culture dei beni culturali. La mia esperienza. I miei studi

di Pierfranco Bruni*

(Romania. Pierfranco Bruni in una conferenza sui beni culturali e le antropologie)

In un tempo in cui il Mediterraneo non è soltanto una geografia o un “modello” geopolitico l’antropologia delle etnie assume una concordanza con quelle eredità che hanno attraversato la civiltà pre Magno Greca sino a tutto il contesto Romano. È proprio nello spaccato tra le identità greche, neogreche e latine che le etnie del Mediterraneo assumano una valenza sia politica sia prettamente antropologica sia metafisica.

Finora abbiamo trattato la questione relativa al rapporto etnie e Mediterraneo come se fosse una dimensione meramente territoriale. In un tempo di vissute incompiutezze esistenziali il Mediterraneo resta un destino, come volle definirlo Braudel, ma anche una sostanziale filosofia della conoscenza dei saperi.

I veri saperi del Mediterraneo nascono dalla definizione di un processo etnico che significa la forza di una archeologia dei saperi dei popoli e delle loro identità. In fondo questo Mediterraneo oggi resta senza una precisa identità. Anzi senza una appartenenza perché se vogliamo dirla in termini di saggezza delle conoscenze le identità ci sono ma sono una dichiarazione di confusione e di reali conflitti anche di ordine economico oltre che religioso etico e culturale tout court. I beni culturali, come patrimonio nazionale, sono una testimonianza nel vissuto della storia e dei popoli, che devono trovare le ragioni per un dialogo a tutto tondo con le risorse e le vocazioni che vivono dentro il territorio. Dobbiamo cominciare ad entrare nell’ottica che il bene culturale non è soltanto una questione materiale.

La cultura è nella immaterialità: dalle lingue alle etnie, dalla musica alla canzone d’autore, dalla presenza delle minoranze linguistiche in Italia (sulle quali stiamo portando avanti studi, ricerche, pubblicazioni e modelli valorizzanti riconosciuti da tutto il mondo con una presenza in molti Paesi esteri e la documentazione è abbastanza evidente) alle antropologie comparate.

Il territorio come bene culturale è un intreccio di beni materiali e immateriali. Oggi parlare di territorio, di patrimonio culturale, di storia significa anche non dimenticare il senso e l’appartenenza di una memoria che vive nei simboli. E i simboli si trasmettono, si contestualizzano, si interpretano. Hanno un loro valore. Penso ai castelli, alle aree archeologiche, ai musei. Se i beni culturali sono identità, la etno – archeologia è una testimonianza straordinaria in questo discorso, e se tali vengono da noi considerati abbiamo il dovere di aprire un vasto dibattito sul loro ruolo all’interno dei territori. Nel depositato della storia ci sono modelli di civiltà e percorsi di epoca che intrecciano segni di identità.

C’è un dato dal quale bisogna partire. Il Sud ha una ricchezza non indotta. Una ricchezza che è sempre più risorse vocazionale. Ecco perché insisto nel discutere di bene culturale e valorizzazione dei territori. Non avrebbero senso i beni culturali senza una vera valorizzazione soprattutto nel Sud. Questi beni sono i simboli di una identità comunitaria oltre ad essere stati riferimenti e contenitori di un processo storico all’interno di un territorio.

Oggi bisogna fare in modo di acquisirli sempre più a quel patrimonio della coscienza identitaria che si specifica nella espressione di una civiltà, la quale si manifesta dentro una realtà ben definita. Vanno conservati, salvaguardati, vanno restaurati e restituiti alla fruibilità. Pezzi, ruderi, macerie sono una testimonianza che continua a vivere pur nel disordine della storia. Sono pur sempre un bene pubblico ma un bene pubblico diverso rispetto ad altre strutture come può essere un mercato coperto in disuso.

Nel mistero e nella storia costituiscono un viaggio nella civiltà. Più volte mi sono occupato di tali problemi e resto convinto che i beni culturali, pur favorendo (e in molti casi costruendo una politica di sviluppo) un raccordo tra economia e cultura necessità di una prospettiva che tenga insieme il fattore specialistico e l’intellettuale, l’uomo di cultura con la dialettica europea sulle culture. I beni culturali vanno affidati agli uomini che fanno cultura e che della cultura hanno una idea precisa che è quella del raccordare processo di ricerca e modelli economici, capacità di valorizzazione ed apertura a realtà altre rispetto ai soli addetti ai lavori. In una fase come la nostra ritorno a proporre una autonomia dei musei, delle aree archeologiche, dei monumenti dalla parte prettamente amministrativa. La managerialità si apre a visioni più complessive perché è la valorizzazione che offre un senso alla cultura.

Una struttura come un castello o un’area archeologica o i musei (o ancora altri riferimenti definiti come patrimonio beni culturali) non sono degli elementi (o valori) aggiunti ad una comunità. Sono parte integrante di una comunità, la quale anche attraverso queste presenze continua a testimoniarsi nel quotidiano. E in virtù di questa storia depositata si potrebbe realizzare una progettualità in grado di avviare una rilettura organica dei territori, grazie a dei percorsi ad intreccio storico e non a delle mete monolitiche.

Voglio dire che non possiamo più pensare di avviare progetti bloccati su percorsi storici definiti ma occorre ormai necessariamente una intelaiatura ad incastro. Ovvero occorre partire dalla Magna Grecia fino alla tarda età rinascimentale. Perché, in fondo, il Sud non ha raccontato una sola storia. Ha vissuto diverse storie le cui deposizioni storiche sono proprio la testimonianza dei beni culturali. Non si può avviare, per esempio, un progetto riferito solo ai percorsi della Magna Grecia oppure soltanto ai Castelli Normanni o ai Palazzi Rinascimentali.

Se la storia, come sosteneva De Felice, non conosce parentesi la si deve studiare e presentare nella sua globalità. Si studia il territorio (e quindi non solamente una comunità: anzi si avvia il lavoro conoscendo la memoria di una comunità) grazie ad una consapevolezza di affiliazioni storiche. I modelli etnici, da me studiati attentamente, sono un fenomeno dell’etno – archeologia.

Si è stati civiltà Magno Greca, prima di tutto, e lungo i tratturi o le rotte di queste genti si sono segnati i passi. I castelli, per fare un esempio, rappresentano un’epoca intermedia (mi riferisco alla realtà normanna e federiciana) rispetto alla vera struttura monumentale rinascimentale e barocca. Ma un territorio va “risistemato” nella sua complessità. Credo che occorrerebbe superare i progetti – confine. Non si può più prendere, nel campo dei beni culturali, un periodo della storia e analizzarlo. Questi sono modelli scolastici che andrebbero, nella traduzione di una lettura sul territorio, completamente superati. Anzi sono già superati.

Un territorio conscio di conservare risorse storiche (archeologiche, monumentali ma anche antropologiche e linguistiche) deve essere “visualizzato” e interpretato in tutte quelle espressioni che hanno permesso di documentarsi con delle matrici identitarie. Se si pensa di focalizzare l’attenzione solo su una struttura, pur avviando un processo in sintonia con tutta una realtà territoriale, non considerando le diverse tappe che hanno formato una civiltà all’interno di una comunità, credo che sia ormai un dato errato.

I percorsi normanni, svevi, barocchi e così via non si reggono storicamente e strutturalmente isolati da un contesto e da una temperie che vivono sul territorio. Bisogna operare in una visione di omogeneità. È intorno ad un progetto etico che si può ridefinire il ruolo dei beni culturali all’interno dei territori. Soprattutto nel Sud questa consapevolezza deve portare ad un nuovo modo di confrontarsi con la storia e con quel patrimonio che resta, comunque, radicamento di un popolo e di una civiltà. Nelle aree meridionali i beni culturali sono una risorsa e una vocazione. Sono quella ricchezza che si integra con i paesaggi (anch’essi beni culturali: mare e montagna), con la natura, con la geografia del territorio stesso.

I territori sono i veri depositari dei testamenti delle epoche e delle civiltà. Focalizzare una tale questione significa, tra l’altro, definire un’idea portante di cultura all’interno di ciò che è stato un vissuto e che dovrà essere futuro attraverso gli strumenti dell’organizzazione, della progettualità, dei saperi. La comparazione tra archeologia ed etno – antropologia è fondamentale: si tratta di un solo esempio. I beni culturali sono reale prospettiva all’interno di quattro presupposti principali: liberalizzazione nella gestione dei musei, attenzione fondamentale al bene culturale non solo come dato di ricerca ma come elemento valorizzante di un territorio, maggiore dialogo tra cultura e politiche di investimento, interazione tra i vari campi degli studi.

Bisogna fare in modo di recuperare il Mediterraneo delle etnie nelle archeologie. Questo è il punto, perché le etnie storiche hanno un senso nello sviluppo che i popoli hanno dichiarato lungo i secoli. Secoli che sono state e sono epoche.

Il Mediterraneo è fatto di epoche e parla attraverso le epoche , ma le epoche sono una espressione di interpretazioni e di letture puramente etniche. Da questo punto di vista la chiave di lettura antropologica resta, nonostante le crisi religiose e ideologiche, il dato centrale per entrare tra le onde dei marti vissuto e decifrare una storia che, comunque, è sempre la nostra storia.

Senza una valenza antropologica neppure la storia avrà senso.

* Responsabile Progetto Etnie del MIBACT

· (Questo scritto è parte integrante del nuovo libro di Pierfranco Bruni “Antropologie e metafisica delle culture” in uscita nei prossimi mesi

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